01 Giugno 2021, 18:41
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PALERMO- “Comprendo il dolore e la rabbia di Santino Di Matteo, il papà del piccolo Giuseppe, ma ricordo che anche lui è un collaboratore di giustizia, che è libero e che ha persone sulla coscienza. Sarebbe meglio un profilo basso, con il silenzio”. Giovanni Paparcuri (nella foto), sopravvissuto alla strage Chinnici, collaboratore dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uomo che ha sofferto molto e che affronta la sofferenza con coraggio, a cominciare dai terribili postumi dell’attentato in via Pipitone Federico, stamattina è andato a farsi un giro in bicicletta, come per liberarsi da un peso.
Ieri, Giovanni, aveva scritto sul suo profilo Facebook: “Hai sentito che Giovanni Brusca è libero? Sì, e ribadisco, così come ho detto altre volte, che non ho mai creduto al suo pentimento e mai ci crederò, al di là del coinvolgimento personale nella strage Chinnici, l’avrei fatto marcire in galera per tutta la vita per gli innumerevoli morti che ha sulla coscienza. Ma, essendo in uno Stato di diritto e se la legge prevede che a questi assassini poi divenuti collaboratori spettano dei benefici, da buon soldato, ma a malincuore ne prendo atto e me ne faccio una ragione, anche se è molto dura… durissima”.
Ecco, forse, uno dei motivi di quella corsa in bici con il telefonino spento. Dopo, le parole fioriscono: “Ho letto quello che ha detto il padre del piccolo Giuseppe Di Matteo, Santino – ripete ancora una volta Paparcuri, rimarcando il concetto -. Da padre ha davvero tutta la mia solidarietà, comprendo il suo dolore. Ma anche lui è un collaboratore di giustizia, è libero e ha persone sulla coscienza. Credo che sarebbe più opportuno il silenzio. Sarò più categorico: per me sarebbe meglio se non dicesse nulla. Senza prescindere dai sentimenti di tutti che sono sacri e legittimi, bisogna capire che i collaboratori di giustizia sono stati importantissimi e che hanno dato un contributo per risolvere casi che, altrimenti, sarebbero ancora irrisolti. Poi, moralmente, restano quelli che sono”.
Il piccolo Giuseppe Di Matteo venne rinchiuso per quasi ottocento giorni in un casolare a San Giuseppe Jato, poi strangolato e sciolto nell’acido che non aveva ancora quindici anni. Così, gli uomini del disonore vollero ‘punire’ suo padre che stava collaborando con la giustizia.
“Chi sono i mafiosi? – si chiede Paparcuri e risponde – Sono dei vigliacchi. Se si sentono protetti e coperti riescono a fare del male e io ne so qualcosa. Ma presi uno per uno sono cose da niente, hanno paura, tutta la baldanza che mostrano evapora. Questo il dottore Falcone lo sapeva bene”. E la chiacchierata finisce con un nome che, nel cuore di Giovanni Paparcuri, risuona alla stregua della promessa di non smarrirsi, come quello di Paolo Borsellino. Non a caso, Giovanni cura il bunkerino della memoria a Palazzo di giustizia. Lì dove è stato ricostruito tutto alla perfezione, come aspettando un impossibile ritorno.
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01 Giugno 2021, 18:41