20 Maggio 2013, 12:08
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PALERMO – “Non ho deciso, non ho parlato con nessuno, non ho preso impegni con nessuno. Se andrò via da qui, andrò via solo per il mio lavoro, per il calcio. E non per altre cose. Sono sicuro di me stesso e cercherò di dimostrarlo anche se non ce n’è bisogno. La cosa bella è che ho sempre voluto essere un uomo comune, non Fabrizio Miccoli. Uno che ama stare tra la gente, consapevole delle proprie responsabilità e della propria immagine, che comunque è secondaria. E ciò non è stato semplice”.
In queste parole di commiato c’è tutto Fabrizio Miccoli, l’uomo prim’ancora che il capitano, l’uomo simbolo, l’ultima bandiera rimasta nel Palermo, dopo il fuggi-fuggi generale degli ultimi due anni. C’è viva e palpitante la persona, quella che mi ha conquistato al di là del suo grande e indiscusso valore tecnico, dei suoi gol, dei suoi record con la nostra maglia, perfino delle sue impennate dialettiche ed esistenziali, delle sue frequentazioni extracalcistiche tanto discusse e spesso vituperate. Al di là di tutto questo ed altro ancora, Miccoli è sempre rimasto Miccoli, una persona semplice, genuina, sincera fino all’autolesionismo, uno dai sentimenti veri, non finti, non posticci, non di convenienza. Uno che ama stare tra la gente, come uno qualunque, non per forza il campione Fabrizio Miccoli. Uno che se trova un amico se lo tiene anche se poi gli dicono che non sta bene frequentare certa gente. Uno che quando sceglie è per sempre e l’amicizia, quella vera, è fatta di questo: di scelte per sempre. Come quella del procuratore, Caliandro, che lui non ha lasciato neanche sotto minaccia: ha preferito cambiare aria che cedere alla prepotenza di Moggi, direttore generale della Juve, mica del Pescasseroli. E questa decisione, forte se non temeraria, che pochi altri avrebbero fatto nella sua posizione, gli è costata una carriera “diversa”, ripartire da lontano, se non da zero, cioè dal Benfica, dove un altro avrebbe stentato e invece lui si è subito adattato, disputando due bellissime stagioni e confermandosi quel campione, che è poi ulteriormente esploso con la nostra amata maglia rosanero. E siccome nel calcio, come spesso nella vita, la gratitudine non esiste e la memoria funziona a comando, ecco che d’improvviso Miccoli non serve più, Miccoli è vecchio. In altre parole, Miccoli ha fatto il suo tempo in maglia rosanero ed è bene che cambi aria. Uno spiffero, all’inizio (c’ero anch’io al ritiro a Malles lo scorso mese d’agosto) con il presidente che faceva orecchie da mercante quando gli si chiedeva perché non rinnovava il contratto del capitano e Miccoli, che come tutte le persone vere, ha orgoglio da vendere, replicava solo all’apparenza tranquillo (ma dentro di sé doveva essere un vulcano): “ E che problema c’è, mica devo dimostrare ancora qualcosa io? Il presidente, quando vuole, sa dove trovarmi… Ma non è detto che, ove decidesse, io mi farò trovare…”.
Uno spiffero, dicevo, che è poi diventato un “ghibli”, un vento di bufera che trascinava sempre più lontano da noi il capitano, avvicinava fatalmente il suo imminente addio alla maglia rosanero. La prima conferma si è avuta con l’avvento di Gasperini, che lo sbatteva subito in panchina senza neanche una spiegazione, se non quella, stantia, della condizione fisica, per poi ripresentarlo, quasi a furor di popolo e dopo due sconfitte di fila, in campo contro il Chievo. E ricevere la lezione esemplare, che tutti ricordano: tre gol fantastici di suo e il quarto, quello di Giorgi, inventato da lui, dopo una ubriacante serpentina lungo la linea di fondo. Qual è la lezione, dunque? Quella che un calciatore non si giudica solo dalla sua possanza atletica, ma dalla sua classe e dal suo carisma. Classe e carisma che non gli sono mai venuti meno, sia nelle giornate belle che in quelle brutte: Miccoli è un capitano sempre, anche se gioca part-time, perché i compagni si fidano di lui, sempre, pure quando dopo uno scatto deve fermarsi perché gli tira il famoso polpaccio o gli brucia la cicatrice dell’ultima operazione ai legamenti. Perché la squadra lo sa, tutti lo sanno, tranne quelli che fan finta di dimenticare, che l’ultima stagione, quella prima di questa, nella quale ci siamo salvati per il rotto della cuffia, ce l’abbiamo fatta solo per i sedici gol di Miccoli. Che non si è ripetuto quest’anno, anche perché intorno non aveva più i vari Sirigu, Migliaccio, Balzaretti, Cassani, Nocerino, Pinilla e via dicendo, ma, con rispetto parlando, gli Ujkani, i Garcia, i Morganella, i Kurtic, gli Arevalo Rios.
Eppure gli si è addebitata la responsabilità del tracollo rosanero, iniziato sin dal primo minuto di questa infausta stagione e proseguita implacabilmente fino a ieri. Fino alla retrocessione in serie B che più annunciata di questa non ne ricordo, anche se ne ho vissute parecchie nel corso della mia ultracinquantenaria militanza, sia da cronista che da tifoso. Era scritto che il Palermo dovesse retrocedere, era scritto nel buon senso e nella logica del calcio, bastava guardare la formazione per capirlo: tante novità, raccattate tra le squadre retrocesse, leggi Novara, Cesena, o di serie inferiore, leggi Bari. E così ieri, nella partita dell’addio, Miccoli è sceso in campo e negli occhi – subito inquadrati a schermo intero dalle telecamere di Sky- si leggeva tutta la tensione di un uomo ferito nell’orgoglio, che voleva dimostrare una volta di più di che pasta è fatto. Si è guardato intorno e ha visto lo stadio pieno di striscioni, tutti per lui: “Grazie capitano, noi non dimentichiamo” o “Non ti ameremo mai di meno”. La gente è rimasta con lui e lui si è commosso, perché è fatto così, non nasconde i sentimenti. C’era poca gente al “Barbera” per l’ultima partita, c’erano solo i fedelissimi, cinquemila o poco più e gli spazi vuoti erano il triplo di quelli pieni. Come a dire che del Palermo non gliene fregava più niente a nessuno. Ma quelli che c’erano hanno subito tributato ovazioni, canti e cori al capitano, dal primo all’ultimo minuto. E Miccoli li ha ringraziati con una grande prestazione e l’ottavo gol della stagione, stavolta su punizione, visto che i precedenti tentativi (almeno 4) erano stati sventati da un formidabile Mirante. Poi, si è attardato sul prato verde per salutare i tifosi e lo ha fatto a modo suo, prima alzando le braccia e poi inchinandosi e baciando la maglia e battendosi con il pugno il petto, all’altezza del cuore. Infine, ha dettato l’ultimo messaggio d’amore alla sua gente. “Questa gente è meravigliosa e non merita quello che ha passato quest’anno… La responsabilità e di tutti, me compreso!”. Poi, gli occhi inondati di lacrime, ha salutato ancora sventolando le braccia e mandando baci… E tutto lo stadio lo ha acclamato cantando : “Solo un capitano… Esiste solo un capitano”.
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20 Maggio 2013, 12:08