18 Maggio 2019, 16:51
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PALERMO – Ma cosa ne sapete voi del Palermo e dell’amore che lo accompagna, che lo protegge e lo benedice? Che ne sapete, mentre studiate le carte e prendete il bilancino per pesare il comma più adatto, secondo voi, come se tutta la giustizia dei codici potesse ribaltare una passione infinita?
Ecco qualche storia che, forse, vi farà ridere e forse piangere un po’. Sicuramente piangeranno (e rideranno) i detentori di un cuore in cui il pallone è solo la strada per un legame che illumina d’immenso chi lo sfiora. Sono tante, vale la pena di leggerle tutte.
La storia di Vicè e di suo padre: “Mio papà, nato a Bagnara Calabra, già da giovane si era trasferito a Palermo. Il suo amore per la maglia rosanero trascendeva i confini le distanze geografiche e la logica. Un amore che trasmise anche a me già da bambino. La leggenda narra che al mio battesimo arrivò un poco in ritardo per una partita e che quando entrò in chiesa io sollevai la testolina dalle mani del prete e gli chiesi: ‘Papà chi fici u Paliermu’... Purtroppo non ha potuto rivedere il Palermo in A perché se n’è andato proprio allo stadio in una fredda notte di un Palermo-Reggiana del 1996. Da lassù avrà poi gioito per la promozione”.
La storia di Vito e di una smemoratezza: “Palermo contro Pistoiese, una cosa pazzesca con il meraviglioso gol di Vasari mentre c’era l’uragano. Usciamo ebbri di felicità. Arriviamo a casa e ci accorgiamo che mio suocero non è con noi. E’ allo stadio con la macchina in panne e tra le vuciate di mia suocera lo andiamo a recuperare. Serie B, terzi quella sera…. E’ il pallone che non torna più”.
La storia di Antonio e della sua fuga (ragazzi, non fatelo a casa, ndr): “Era la stagione 1976-1977. Avevo appena nove anni. Erano i tempi del mitico presidente Barbera e dei miei idoli Maio e Magistrelli. Sin da piccolo mi innamorai dei colori rosanero, mentre tutti i miei compagni di scuola tifavano Juve o Inter”.
Il racconto prosegue: “Una domenica mattina di novembre, uscii da casa per andare a Messa come tutti i bravi bambini. Ma il mio sogno di poter vedere i miei idoli era davvero forte quella mattina, a tal punto che, nascondendo tutto a mia mamma, andai a piedi al bivio dove inizia la strada che dalla mia Corleone porta a Palermo. Iniziai a fare autostop, con la speranza che qualcuno mi prendesse al volo: quel giorno il Palermo giocava contro il Cagliari. Un signore di buon cuore mi dette un passaggio. Dopo mille peripezie arrivai al mio tempio: la Favorita. Chiesi ad un tizio che mi facesse entrare come se fossi suo figlio. Quando entrai ebbi paura dell’immensità e piansi dalla gioia. Così come piansi soprattutto quando tornai a casa, dopo che mia mamma aveva presentato una denuncia di scomparsa. Le presi di santa ragione. Me le meritavo. Quella fu non solo la mia prima partita del Palermo, ma la realizzazione di un sogno che era diventato realtà”.
La storia di Marco: “A dodici anni si è ancora troppo piccoli per andare da soli a Roma per assistere alla finale di Coppa Italia, soprattutto in una famiglia dove il calcio era un oggetto lontano. Mi chiusi nella mia stanza incollato davanti a un TV Telefunken minuscolo, comprato coi miei risparmi. Dopo il rigore calciato da Favalli sulla traversa scaraventai su quel minuscolo televisore qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano. Li capii che probabilmente non avremmo mai più vinto nulla, ma il mio amore per il rosanero crebbe quanto la rabbia. E poi la prima promozione in serie A, lo sguardo scambiato con mia figlia, un lungo pianto di gioia e tutta la notte a festeggiare per le vie palermitane”.
La storia di Loredana: “Eravamo andate insieme con la mia mamma a vedere gli allenamenti a Boccadifalco. Due parole con Brienza, diventato padre da pochissimo, per questo era un po’ confuso e molto emozionato. Mamma lo incoraggiò con un sorriso: ‘Vedrai che alla prossima farai gol’. E Brienza segnò alla Juventus”.
La storia di Alfredo e dei suoi giri per il mondo: “Quando lavori in un paese con sei ore di differenza di fuso orario dal tuo, se sei un appassionato di calcio, e la tua squadra si chiama Palermo, allora hai un problema. Come il sottoscritto, ai tempi funzionario per l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, in servizio nella città di Petit Goave, a 68 chilometri dalla capitale Port au Prince. Correvano gli anni 2005-2007. Corini era incoronato come capitano, mentre Santana lasciava il solco sulla fascia. Haiti viveva momenti difficili, e il calcio restava uno dei pochi baluardi dove rifugiarsi la domenica mattina. Solo che gli haitiani sconoscevano il Palermo dei miracoli, preferendo le gesta di un certo Ronaldinho, in forza al Barcellona. Ma essere il direttore programmi per l’unica organizzazione internazionale dava qualche vantaggio. Come quello di essere l’unico finanziatore della locale stazione televisiva, capace di trasmettere la domenica mattina alle nove le partite giocate in Europa. Fu così che discutendo con il direttore della emittente feci capire che sarei stato molto felice di potere vedere il mio Palermo giocare la serie A. E come per incanto, alle gesta del Barcellona si sostituirono quelle di una curiosa compagine dalla casacca rosa, che ogni domenica mattina intratteneva la popolazione di circa 22mila haitiani, più un bianco, d’origine palermitana, comodamente seduto sulla poltrona di casa. Il rosa fu per due anni il colore della maglia più seguita in quella provincia, con buona pace dell’estroso Ronaldinho”.
La storia di Roberto e del suo animo da bambino: “Alle elementari mi ritrovai interista, come quasi tutti i miei compagni di classe. Ovviamente, non c’era niente di sportivamente meditato in quella scelta: era l’epoca di Sarti, Burgnich, Facchetti… quella di Helenio Herrera e delle figurine Panini; stare dalla parte dei più forti era un passaporto per essere ben accetto al branco. Ero alle medie quando qualcosa di imponderabile cambiò tutto. Mi accorsi che il mio compagno di banco, Giovanni, tutti i lunedì mattina entrava in classe con evidenti danneggiamenti: una volta un ginocchio sbucciato, un’altra braccia graffiate, un’altra ancora mani ferite. Quando entrammo in confidenza, mi raccontò che il pomeriggio della domenica andava allo stadio per seguire la partita del Palermo e, come era usanza a quell’epoca, entrava arrampicandosi da dietro le tribune, eludendo le deboli sorveglianze degli spalti e rischiando la vita. Tutte le sacrosante domeniche”.
E l’incendio rosanero divampò: “Ammirai la costanza, l’impegno, la dedizione; capii molto tempo dopo che quella pratica non era dovuta ad un capriccio da ‘portoghese’, ma a indigenza vera. E sarà stato spirito di appartenenza, o semplice cagnoleria, o entrambe le cose, di fatto era sempre testimone clandestino di tutto ciò che succedeva in campo. Io a quell’epoca non andavo allo stadio e ascoltavo il risultato della partita dagli strilloni che appena qualche minuto dopo la fine – roba che la velocità di internet potrebbe eguagliare a stento – alla Stazione e in tutti gli angoli della città abbanniavano. Quel Palermo andò in serie A, tra gli scetticismi dei più. Il giorno della maturata promozione Giovanni festeggiò in modo scomposto ed entusiastico quell’evento anche in classe, insieme ad altri miei compagni. Li guardai con un misto di invidia e di ammirazione. A un certo punto mi regalò un disegno dove spiccava una rozza bandiera rosanero, tenuta in mano da una figura umana che sarebbe potuta essere lui. Mi sembrò un’investitura, un’iniziazione, un battesimo. Fu così che mi attaccò quello splendido ed eterno virus”.
E tante altre storie. Come quella di Fulvio che accolse un ragazzo, che aveva appena perso il padre, in casa sua. E lo aiutò a crescere con la scusa meravigliosa del Palermo. E Fulvio lo sa, e se non lo sa lo sappia, che quell’affetto non è stato mai dimenticato, né un giorno, né un’ora, né un minuto, né un istante.
Eccole le storie rosanero, alcune fra le tante. Mettetele sul bilancino. Il nostro cuore di qua. La vostra giustizia di là. Ecco le storie di un popolo che ha sempre amato e non si è mai arreso. E adesso ridete. E adesso piangete.
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18 Maggio 2019, 16:51