19 Marzo 2019, 09:33
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Caro papà,
ti ricordi l’isola di Lampione? Quanto tempo… me ne parlasti che andavo alle medie. Mi dicesti di averla vista da lontano, per caso, dalla nave, sulla rotta per non so dove, non so quando.
Un fazzoletto di terra tanto piccolo da non consentire nemmeno di immaginarci una capanna o una tenda. Poco più che un sasso, gettato per sbaglio in mezzo al mare, tra Tunisia, Libia e casa nostra. Un irripetibile baluardo luminoso a illuminare il mare ed i suoi passeggeri. Una nave mai partita, mai arrivata, ben attraccata sulla sua solitudine. Te ne ricordi? Ci pensavo proprio stamattina, prestissimo, quando il sole non si vedeva ancora. Pensavo a quando mi facesti riconoscere sulla carta geografica quel punto minuscolo, circondato da un mare immenso, e mi dicesti del faro e della sua luce intermittente, un’unica luce, un’unica certezza. Mi dicesti quanto è importante il mestiere del faro, quando il mare non ti da nessuna garanzia di sopravvivenza. E pensavo a ciò che tu sei stato per me, per noi.
Quando mi togliesti le rotelle dalla bici, continuai a camminare spedito, dicendomi quanto era facile mantenere l’equilibrio e quanto fossi in gamba a riuscirci così presto. Ma dietro, non visto, mi reggevi con la mano il sellino.
Quando quelle maledette espressioni matematiche non trovavano vie di sbocco sul quaderno a quadretti, mi spiegavi che erano i numeri ad essere spietati, nella loro fredda precisione, non io a non comprendere; bastava addomesticarli con la logica e riscaldarli con il cuore, e tutto diventava risolvibile.
Quando ti feci ascoltare le prime semplici armonie della mia chitarra che cominciavano a venire fuori, dopo tanto sferragliare scoordinato, restasti incantato e assorto. Capimmo entrambi che si può dialogare anche dentro un mondo fatto di musica e ritmi.
E quando ti raccontai dei primi esami a Medicina tu sorridevi, ma non troppo. Pensavi, forse, a quanto sarebbe stata seria e austera una vita da dedicare al dolore degli altri. Forse temevi che me ne sarei addossato una quantità insopportabile. No, non eri ottimista sul mio futuro.
Venne un giorno da sudare freddo. Un giorno nel quale, da padre che eri stato, diventasti figlio, ubbidiente nel prendere le medicine, paziente nell’ascoltare i consigli, riottoso e insofferente nell’accettare un destino di malattia. Mi guardavi con gli occhi del dolore, mi chiedevi qualcosa; come dev’essere duro invertire la direzione e farsi figlio richiedente aiuto, da padre di certezze che eri stato. Devo dirti che ho odiato la medicina solo quando vidi che non mi era stata utile per guarirti.
Ma ogni fine è l’inizio di qualcos’altro; ho davvero cominciato a fare il padre anni dopo. Ho anch’io lanciato una, due, tre frecce verso il futuro, verso bersagli che non conosco, anche se sono stato io a scoccarle con l’arco. Ho atteso, sentito felicità e apprensioni, come te; continuo ancora adesso ad attendere e sentire. Mi sono stupito di ricordare che “…già, oggi è la festa del papà!” trovando ai piedi del letto il pensierino inatteso, opera di tre piccoli progettatori di sorprese. Ho i miei sabato sera in macchina, tardi, con gli abiti di casa sotto il giaccone, per andare in ronda a prenderli, distaccandoli dalle prime movide. Ho le mie trascurabili angosce, camuffate di disinvoltura, tutte le volte che sono lontani da me, dove è giusto che vadano.
Mi sono sempre chiesto se sarei stato all’altezza di un faro, davvero, fiero e orgoglioso della strada mostrata, sia pure da uno scoglio gettato in mezzo al mare. Tante volte mi sono domandato quando avrei finalmente finito di imparare ad essere padre, senza trovare date e scadenze. E tante volte ancora ho sofferto per il mondo spietato al quale affido la parte più preziosa di me, ma che non mi appartiene.
L’isola di Lampione eri tu. Immerso in un mare che ti avvolgeva senza mai diventarti amico; isola di certezza in un presente incerto e minaccioso. Solo, ad illuminare chi ti avrebbe ringraziato a vita per quella luce. L’isola di Lampione sono ancora io; capisco adesso quanto hai temuto le mareggiate: ora le temo io; capisco il desiderio di non sprofondare mai cercando sostegni in cielo; capisco la gioia di essere roccia, per chi ha bisogno di te, e la paura di sbriciolarsi in sabbia.
Ma per i figli di ogni tempo un padre è un’isola con un faro senza tempo, un anelito di terra ferma, una promessa di arrivo per loro, sempre in partenza, un perenne “chiamami, quando arrivi”. Tanto partiranno di nuovo. Per questo, per tutto questo ti sento vicino, ora più che mai, ora che non potresti essere più lontano.
tuo aff.mo Roberto
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19 Marzo 2019, 09:33