Leo Gullotta, l'infanzia al "Fortino": tra ricordi e successi VIDEO

Leo Gullotta, l’infanzia al Fortino: tra ricordi e successi VIDEO

Una biografia in arrivo ed una carriera che ha fatto Storia: un'intervista a cuore aperto.

CATANIA. Abbiamo incontrato un vero e proprio mattatore del cinema e del teatro nostrano. Un grande e talentuoso artista come Leo Gullotta.

Sei nato a Catania, quartiere Fortino, nel ’46. Quali sono i tuoi primi ricordi? Cosa ti va di condividere con noi della tua famiglia e della tua Catania di quegli anni?

Io sono nato al Fortino, a Catania, un quartiere preciso che fa il triangolo con i Cappuccini a San Cristoforo. Non era come oggi, nonostante tutto, anche se il quartiere è semplice, povero. 
Io sono figlio di un pasticcere, Carmelo, e mamma Santina, l’ultimo di sei figli, per fortuna nato dopo la guerra. 
Io avevo tanti papà e tante mamme, fratelli e sorelle che mi coccolavano. Loro sono molto più grandi di me: Tina, Graziella, Mariù, i miei fratelli, Gianni, Tino. Papà ci ha fatto andare a scuola tutti e questa già è un’impronta precisa. 
Da bambino non capisci bene perché alcuni compagnucci con, i quali hai giocato, magari non le vedi più, per ragioni familiari, uesto naturalmente l’ho capito dopo. Era un quartiere comunque gioioso.  In quegli anni, gli anni ‘55 e ‘56, si ricostruiva l’Italia dopo la guerra e tutti quanti lavoravano. 
Nel mio quartiere tutti lavoravano. Si lavorava, si sorrideva, e si lavorava tanto.
Io abitavo in una casa “di ringhiera”, in via Calanna, e sotto c’era un cortile.  In questo cortile lavoravano anche persone con le “balle”. Per quelli che sono giovanissimi e non lo sanno,  erano tutte le offerte che venivano dall’America in questo paese preso dalla guerre. 
Quindi si aprivano queste grandi balle piene di vestiti, vestiti usati ovviamente, che erano stati mandati per solidarietà e li si rivendevano. 
Mi ricordo che le mie sorelle compravano i vestiti, se li aggiustavano, ed erano perfetti. Le mie sorelle erano due bellissime ragazze, una addirittura sembrava  Ava Gardner, questa meravigliosa attrice, per chi se la ricorda. Ma tutti erano bellissimi, alti, occhi colorati, insomma io dopo la guerra venni “anticchia cutticeddù”, non avevo niente da condividere con queste cose belle familiari.

Da comparsa al teatro Massimo Bellini ad attore di punta del panorama teatrale , televisione e cinematografico. Ci racconti l’inizio di questo viaggio fantastico?

Per un giovinetto come me in quegli anni a Catania non c’era niente. Io ero un ragazzino curioso e questa curiosità mi è rimasta ancora oggi, per fortuna. E quindi andavo in giro a guardare, a vedere, e quando la mia curiosità era esaurita, la cosa finiva lì. Non davo significati di chissà quale tipo, compreso anche il famoso “fuoco sacro” per l’arte: io non ce l’avevo, omeglio, non lo sapevo. 
Man mano mi sono avvicinato all’arte, sempre per curiosità e per caso
Infatti ho iniziato a fare professionalmente questo lavoro soltanto per caso, per un incontro casuale, e gli incontri sono importanti nella vita. 
Era il primo anno che il Teatro Stabile di Catania partiva, grazie anche alla direzione di questo giornalista, di quest’uomo colto, Mario Giusti, che oggi non c’è più.
Assieme a tutta la compagnia, Turi Ferro, Spadaro, Abruzzo, hanno fatto sorgere il Teatro Stabile di Catania, alla sua prima edizione.
Per caso mi ci sono ritrovato dentro anche io, con “Questa sera si recita a soggetto”. C’erano cinque “tenentini”, tra questi anche Pino Caruso, anche lui allo Stabile di Catania che iniziava comunque, ed io non sapevo assolutamente nulla. Da quel momento io sono rimasto per dieci anni allo Stabile di Catania: quel poco, quel tanto, che so, sotto tutti i punti di vista, l’ho incamerato grazie a questa esperienza, con professionisti meravigliosi e con persone meravigliose, compreso anche il siparista. 
Tirare il sipario è un’arte, quindi anche lì impari, guardi, vedi. Ho “guardato” per dieci anni. Poi gli ultimi tre anni con lo stabile ho girato il mondo: pubblico, abbonamenti, 18.000, 19.000. Una cosa incredibile, e quest’uomo l’ha portato avanti per trent’anni, trent’anni sono tanti, facendolo vivere quest’Ente importante nel mondo. Si è girato il mondo, tournée e quant’altro. Poi è volata via questa meravigliosa persone.

Da quel momento tutto è diventato il possesso di un potere, più o meno interessato, più o meno amato, verso il teatro, ma claudicante, sempre di più claudicante. Io sono nato in quel teatro e sapere oggi di questa sofferenza per me è incredibile, mi fa male. Era un teatro molto amato in Italia, apprezzato, stimato. Per un giovinetto come me allora era poi l’occasione di lavorare per lungo tempo con Salvo Randone, un monumento europeo di recitazione,Turi Ferro, da quest’uomo io ho imparato, ho visto, ho guardato,probabilmente ho anche rubato, ma non imitato. 
Turi Ferro era “un particolare”, andava dalle commedie ai drammi: un attore immenso. Naturalmente sta ancora oggi nel mio cuore. Mi chiamava “Gullottino”, questo fa intendere quanto fossi ragazzino. Ho imparato tante cose da questa monumentalità di professionisti, anche umanamente.

Anche tu però, per inseguire il tuo sogno, hai dovuto lasciare la Sicilia. E’ stato un prezzo caro da pagare?

Questa è una legenda: la pesantezza della Sicilia, la mancanza di lavoro. Io ce l’avevo un lavoro, ero uno dei giovani promettenti , non solo promettenti, dello Stabile di Catania, dove ho lavorato per dieci anni. Gli stimoli di questo direttore Mario Giusti sono stati assolutamente meravigliosi, amicali oltre che professionali. Un attore però deve guardare, vivere, girare il mondo. Altrimenti cosa racconti quando lavori? A che cosa fai riferimento? Allora si lavorava a Roma. A Roma si concentrava il lavoro cinematografico, teatrale, lo spettacolo, la televisione, tutto. Così è arrivato il momento e mi sono consigliato con il direttore, con Mario Giusti. All’inizio lui mi ha detto “Ma dove vai?”. Poi mi ha detto una cosa molto bella: “Tu lo puoi fare, data la tua giovane età, e fai bene.

Da quel momento in poi Roma è diventata la mia casa, il mio punto di riferimento. Ormai sono tanti anni, ma non ho mai lasciato l’interesse verso Catania, verso questa terra, verso questi problemi del Meridione. Li seguo  sempre attraverso i quotidiani, ogni mattina, perché fa parte di me. 
Sarebbe sciocco, stupido, cretino, non farlo.  E quindi sono assolutamente sempre molto, molto, presente.

Negli hanno avrai visto inevitabilmente cambiare la tua terra, probabilmente anche molto. Quali sono state  le tue sensazioni e le tue riflessioni l’ultima volta che sei tornato in Sicilia?

L’ultima volta sono stato ad una manifestazione per Falcone e Borsellino, a Palermo, ed era in prossimità dell’elezione del sindaco. 
Certamente, dopo Falcone e Borsellino, tutto quello che è accaduto, i famosi funerali di Falcone, questa città indignata, meravigliosa, questo istinto del tutti uguali, questa chiesa strapiena, questi effetti. Fuori c’era proprio una vera e propria indignazione. Possibile che questa indignazione di colpo, nel tempo, sia finita? E che cosa accade? 
Accade che Palermo ha un sindaco che non c’entra assolutamente nulla: Lagalla, e nessuno se l’aspettava. 
Oppure accade che ritornino dal passato persone che magari hanno attraversato il carcere per cose sbagliate,  politicamente e non solo, e la loro frasetta è “Vabbè, che volete? Ho pagato e quindi…”.
Ma non è possibile che ricomincino laddove hanno lasciato. Non è possibile che in una città come Palermo, ma di conseguenza, per altri versi, anche a Catania, a Messina, in Sicilia, non ci sia più l’indignazione per quello che accade, per ciò che accade in  politica. 

Penso ai fallimenti dei comuni, ma anche ai femminicidi e alle famiglie distorte che si ammazzano l’un con l’altro. Questi sono casi che accadono, come accadono in tutta Italia. La terra meridionale è fatta di persone meravigliose, piene di tanta voglia di dare amore, di essere presenti, di stare insieme, di costruire, ma non glirlo fanno fare.

Nel ’98 è uscito una collana per universitari  che ti riguarda dal titolo “Mille fili d’erba. Ovvero: come vivere felici anche su questa terra”. E’ possibile quindi essere felici anche su questa terra? E’ possibile per tutti?

La felicità è una parola meravigliosa, ma la felicità non vuol dire per forza avere la piacina a forma di cuore o la villa megagalattica. La felicità è incastonata in cose anche molto semplici, piccole. Essere felici si può, naturalmente avendo tutta una serie di attenzioni sociali per tutti. 

E invece no, sempre levano ai poveri per dare ai ricche. Mi spiegate perché non non si può fare il confronto su chi paga e su chi non paga, su chi lavora e su chi non lavora. A queste benedette famiglie che non ce la fanno, dicono “Cercatevi un lavoro!”, addirittura c’è ora un ministro che dice che bisogna avere la terza media per avere il reddito di cittadinanza, ammesso che ti spetti.
Mi sembra una cosa da ridere. 
Se non hanno potuto finire la scuola qualcosa è successo, quindi bisogna indagare prima e guardare prima. Non è che si può parlare così, tanto per dire. La sofferenza è sofferenza e non è possibile che si vada per frasi fatte. 

A giorni uscirà in libreria, per Sagoma Edizioni, una biografia dal titolo “La serietà del comico”. Cosa puoi anticiparci?

Chi desidera sapere le tantissime cose che ho fatto in sessant’anni di lavoro lì, in questo libro di prossima uscita nelle librerie, le può trovare.
Ma c’è anche uno scandagliare l’uomo, la persona, l’individuo, quindi non è soltanto a senso unico: “Cosa ha fatto, quando ha fatto? Perché ha fatto? Chi, che cosa?”, ma questo giornalista mi ha seguito per un anno e mezzo, Andrea Ciaffaroni, ed ha accumulato materiale, volendo anche osservare però l’uomo, l’individuo, la persona, l’attore.
Mi sembra che questo possa essere estremamente interessante per conoscere meglio una persona.
Sicuramente mi conoscerete meglio.

Ad oggi hai  all’attivo più di 40 progetti televisivi e quasi 200 interpretazioni tra teatro e cinema, dove sei stato premiato con 3 “David di Donatello”, 2 “Nastri d’Argento”, 2 “Globi d’Oro”, 1 “Biglietto d’Oro”, 1 “Chioma di Berenice”,  1 “Pellicola d’Oro” e molti, molti, altri riconoscimenti. Qual’è la gratificazione più importante per un attore del tuo calibro?

Il fatto di aver ricevuto premi importantissimi è una cosa molto bella, la serata in cui avviene questa premiazione oppure le le nomine, le cariche del Presidente della Repubblica: giornate bellissime, con un ricordo bellissimo. Però, arrivato a sera, prendi questo premio, questa onorificenza, e la mette lì nel tuo studio, nel tuo scaffale, e lì rimane.

Perché il fatto stesso che ti hanno dato un premio vuol dire che ci sono state persone che ti hanno osservato e se ti hanno osservato, dandoti un premio importante, questo lo devi mettere da parte, non ti devi lodare, ma devi sapere che dall’indomani devi fare invece ancora di più perché, è giusto che sia così.

Se sei stato osservato, devi devi saper dare a te stesso una motivazione per fare sempre meglio. Poi io sul lavoro sono molto tedesco, così come nella vita. Le regole per me sono cose importanti. Essere puntuali ad esempio. Sempre devo incontrare gente che mi dice “Ahschusa per il ritardo, ma c’era il fraffico, le macchine…”
Che vuol dire, che quando sono arrivato io all’appuntamento con me le machcine volavano ed io potevo passare? Credo che si tratti alla base di buona educazione verso l’altro, di rispettare il lavoro dell’altro.

Nel film “Quel posto nel tempo”, in concorso al Catania Film Festival, interpreti, in maniera magistrale, un direttore d’orchestra affermato che, ormai lontano dalla scena, si trova a fare i conti con l’Alzheimer. Cos’ha rappresentato per te dare vita a questo personaggio così struggente che ti ha regalato già tanti riconoscimenti?

“Quel posto nel tempo” non è soltanto un viaggio nella malattia dell’Alzheimer, questo è il fil rouge di tutto il racconto di questo direttore d’orchestra, a dentro ci sono tanti temi che oggi ci appartengono: la crisi tra figli e genitori, la solitudine, si vede a Napoli, dove è girato il film, mai vista così, completamente vuota e questo segna l’isolamento che oggi viviamo, ma soprattutto la memoria.

E’ un film che attraversa la disperazione verso la memoria e la memoria, chi soffre di Alzheimer, la perde lentamente. E la cosa più atroce è che la persona che sta vicino al malato di Alzheimer, il parente, la moglie, affrontano la cosa più terribile che può accadere. Vedono infatti questa persona amata davanti a loro, che spesso e volentieri non li riconosce, loro vivono questo dolore in prima persona, in maniera dura, forte, coraggiosa. Vedono davanti a loro una persona che li ha cresciuti, li ha visti vivere, giocare, amare, ma che di colpo non c’è più. Ha negli occhi, così come il protagonista di “Quel posto nel tempo”, questo dolore, questo lento non esserci più. Gli unici ricordi che mantiene il malato di Alzheimer sono quelli adolescenziali, oppure una musica: e lì si apre un mondo. 
Però quando tu hai amato una persona, ami una persona e gli dici “Ciao, come stai?” e lui ti risponde “Chi sei tu?”,  ecco, quello è un colpo tremendo che la persona sana purtroppo riceve.


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