Catania, mafia e pizzo, sconta la pena ma resta detenuto

Mafia e pizzo, sconta la pena ma resta detenuto: per lui “casa lavoro”

La vicenda riguarda il catanese Giuseppe Parenti

PATERNÒ (CATANIA) – Mafia e pizzo. Giuseppe Parenti, 43 anni, è stato condannato per entrambi i reati. Coinvolto nelle trame criminali dei gruppi locali di Cosa Nostra, del clan Morabito (Laudani) e degli Assinnata (Santapaola). È stato condanno nei processi The End, Vicerè e EnPlein. Solo che le pene inflittegli, lui, le ha scontate, ma uscito dal carcere deve rimanere per un anno in una “casa lavoro”. E questa misura, teoricamente, potrebbe anche essere rinnovata.

Per l’avvocato difensore Eleonora Baratta “è assurda l’applicazione per il mio assistito”. “È stato rimesso in libertà solo due mesi fa, dopo aver scontato una ulteriore severa pena decennale, oltre ad altra precedente. Ha scontato la sua pena per tutti i fatti per cui è stato ritenuto colpevole, di fatto passando metà della sua vita da ristretto. Ha pagato il suo debito con la giustizia. Nonostante ciò, oggi è ancora sottoposto a una misura di sicurezza antiquata che forse poteva avere senso nel 1930, in periodo postbellico, che ormai, al giorno d’oggi, è solo inutilmente vendicativa”.

La riduzione di pena, da ventidue a 8 anni

Questa decisione, per Parenti, fu presa la prima volta nel 2015. Poi però venne tratto in arresto nelle operazione antimafia già citate. Il suo legale, non appena assunta la difesa, è riuscito a ottenere un’importante riduzione di pena. Dai 22 anni in un solo procedimento (più altri che gli erano stati inflitti inizialmente), si è scesi a soli 8 anni. Questo grazie a un annullamento ottenuto con rinvio dalla Cassazione e un processo bis in appello. Il risultato è la scarcerazione, avvenuta il 3 luglio scorso. Ha lasciato il carcere.

Nel frattempo, è stata fissata una udienza dinanzi al magistrato di sorveglianza di Reggio Calabria per l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva. Dopo un rinvio a settembre, il giudice ha disposto la “casa lavoro”, in cui è tornato ristretto. “Ciò che gli è accaduto – sottolinea l’avvocato Baratta – è la negazione della funzione rieducativa della pena. Che lo stesso ha subito. Piuttosto che superare l’idea della carcerazione, viene perpetuata in questo modo. In trent’anni di attività professionale è la prima volta che mi relaziono con questa stortura”. Così per la difesa viene “compromesso il reinserimento nella società, vanificando, di fatto, il principio del finalismo rieducativo”.

La casa lavoro: “In tutto simile al carcere”

L’avvocato Baratta, dopo aver ricostruito un pezzo di storia di questi istituti, sottolinea che la loro esistenza “non significa che debbano essere rispolverate”. “Anzi – fa notare – alla luce delle ultime recenti riforme che favoriscono le misure alternative alla detenzione dovrebbero sopprimersi”. La struttura in cui si trova Parenti sarebbe “in tutto simile al carcere dato che ne costituisce una sezione e di lavoro in quelle ove si attuano non se ne parla, non essendo peraltro più neanche obbligatorio”. 

E ancora: “Prima del 2015, epoca in cui fu richiesta per Parenti, erano sottoposti a questa misura di sicurezza detentiva fra le 1.000 e 1.500 unità, ora neanche un quinto – conclude la legale -. Ecco perché con la collega Giovanna Pizzimenti del foro di Reggio Calabria, che apprezzo e ho voluto come codifensore in loco, abbiamo impugnato la decisione che lo ha riportato di fatto in carcere. Abbiamo ottenuto la fissazione di un’udienza per fine mese dinanzi al tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria. Lotteremo e ricorreremo, se necessario, anche alla Corte di Giustizia Europea per chiedere la disapplicazione di quanto imposto al malcapitato Parenti. Il nostro cliente è stato costretto a rientrare in una struttura penitenziaria dopo appena due mesi che ne era uscito, mentre cercava di rifarsi una vita anche sentimentale, senza alcuna colpa”.


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