06 Gennaio 2018, 12:49
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Ci voleva un altro morto perché a Palermo si tornasse a parlare dei vivi. I giornali hanno raccontato le storie nascoste nell’ombra. Il Comune si è affrettato a convocare una conferenza stampa sulla povertà. Un meccanismo di partecipazione si è riacceso, dopo anni di inerzia.
Ci voleva – brutale scriverlo, ma come negarlo? – la dolorosa fine di un uomo, il clochard Amor, sotto i portici di via Crispi, perché le vite degli ultimi tornassero nell’agenda delle emergenze di cui discutere, nel foglio d’ordine da cui erano state espunte. Una contraddizione tra intenti e prassi, oltretutto. Una comunità che aspiri a diventare vera capitale della cultura e dell’accoglienza non può permettersi l’indifferenza.
La bellezza palermitana di cui tanto si parla, tra concretezza e propaganda, non è effimera; rappresenta un antidoto al male di vivere, un investimento, una crescita complessiva di civiltà. La magnificenza del Teatro Massimo, le iniziative che ci condurranno a uno snodo cruciale nei prossimi mesi, tutto quello che volenterosi operatori dello stupore realizzano – la meraviglia di chi alza la testa e scopre una dimensione diversa – compongono una benedizione sorretta da una fatica spesso misconosciuta.
Ma non possiamo concentrarci esclusivamente sull’immaginario, sui simboli, lasciando la necessità fuori da ogni discorso, come se accennare ai poveri, alla crisi, alla complicata sussistenza di tanti palermitani fosse un atto di lesa maestà nei confronti del marketing dello splendore. Perché questa è l’impressione nel chiacchiericcio social, in certi riflessi istituzionali e nel sentire di molti: che ogni accenno al dolore sia vissuto con fastidio, come l’interruzione di un sogno.
E invece c’è un villaggio sotterraneo da descrivere e poi da salvare. Nino che accompagnava Amor nelle sue sere all’addiaccio. Carmelo e Maria, coppia che ha perso tutto, per sopravvivere in macchina. I diseredati della stazione. Le anime vaganti sotto i portici. Le esperienze sdrucite, gli sguardi offesi, gli occhi che chiedono aiuto, vergognandosi dell’indigenza che ne ha squassato il cammino.
Storie nascoste nell’ombra che scriveremo ancora, perché l’accudimento del debole è il dovere dei cronisti di questo tempo. Perché è inaccettabile metabolizzare esistenze all’addiaccio, considerandole un normale effetto collaterale dei tempi. Perché la cultura può dirsi veramente tale solo quando ricade in forma di consapevolezza nella biografia delle persone, quando le abitua a guardarsi intorno, quando diventa la chiave che apre le porte più difficili.
Finora non è andata sempre così. Abbiamo innalzato una lucente bandiera sopra troppe macerie, su troppi problemi irrisolti, su troppi destini di rassegnazione. E c’è voluto un altro morto perché, nella civilissima e indifferente Palermo, si tornasse a parlare dei vivi.
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06 Gennaio 2018, 12:49