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Chi è di scena? | Sei personaggi in cerca d’autore

Pirandello è stato maestro: conosceva ogni ribalta della finzione.

INCHIOSTRO DI SICILIA
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4 min di lettura

Chi è di scena?

In fondo è la domanda che, ad occhi appena aperti, rivolgiamo alla nostra anima.

E dove il copione?

Scritto con mano malferma, battezzato con il nome stantio della memoria. Nell’inconfessabile illusione che anche l’altro “abbia compreso il gioco” e trovi, chissà dove in se stesso, una vitale improvvisazione.

Invece, ci aggiustiamo maschere sul viso, magari nell’angolo più riservato, magari con la destrezza di celati rancori o, perfino, con una certa eleganza propria della rassegnazione perché “manca il coraggio di dirle, certe cose”.

Pirandello è stato maestro: conosceva ogni ribalta della finzione. Ma sembra che insista in noi il ruolo di modesti attori, pronto a sgretolare il superbo dramma affidatoci dalla sorte.

Con sempre più capi comici che allentano il nerbo della realtà in rappresentazioni minate dall’opportunismo e dal veleno del buon senso.

Nascono così anche i sei personaggi di Luigi Pirandello “esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali ma più veri”.

Entrano in scena chiedendo a un capo comico di diventare il loro autore affinché metta in scena il dramma non realizzato.

“L’autore che ci creò vivi, non volle poi, o non poté materialmente metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi della morte.”

Sono “ombre nell’ombra” che pretendono di raccontare “così come ci urge la passione”.

Lo fanno entrando in teatro, certi che gli attori non potranno mai, seppure con la loro effimera bravura e l’aiuto del trucco, rappresentarli come sono dentro.

Si apre nell’opera il conflitto fra il mondo della fantasia con quello della realtà scenica, è vero. Ma, ancor di più, il rapporto fra l’Autore e i suoi personaggi.

“Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra. Che seguivano commiseranti alla mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse erano nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto che, alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.”

Avviene esattamente in questo modo l’incontro con i personaggi nell’impercettibile e profondissimo abisso da cui provengono, se non manipolati e strutturati nella mente dello scrittore.

Le nostre librerie sono ormai colme di anime forti, esattamente quelle che non hanno nulla da dire. Anch’esse con un copione abusato, spesso impiantato in un delitto con le sue guardie e i suoi ladri o in una storia che, talvolta anche ben scritta, non ha il potere di tradurre, attraverso il loro racconto, il cammino dello scrittore e, conseguentemente, del lettore.

Invece i personaggi pirandelliani pretendono di esistere, almeno per un momento, perché non fanno “parer vero quello che non è” e, dunque, sono irrappresentabili. Non sono fantasticati, imbellettati, non hanno un copione che li contenga.

Un autore, di solito, non confessa il travaglio della creazione, ma conosce bene il rapporto con i personaggi che, se veramente vivi, assumono presto una loro indipendenza tanto da acquistare potere assoluto di narrazione.

Nessun scrittore ha potere di direzione sull’immaginario. La letteratura non si confeziona che nelle stanze dell’inconscio laddove si forma lo stile e prendono carne le parole.

Un personaggio così concepito “non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eternamente non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era Don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché vivi germi ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire.”

Insomma, solo quando l’inchiostro diventa “parola che non dice nulla, e in cui ci si acquieta”, nasce il dialogo autentico, mentre nelle relazioni “crediamo d’intenderci e non c’intendiamo mai”, ciascuno destinato a comprendere solo ciò che risuona nel proprio mondo intimo in una forma di “sordità mentale”.

Un personaggio è sempre qualcuno, scrive quasi paradossalmente Pirandello. Può, perfino, domandare a un uomo chi è perché un uomo può essere nessuno.

Dunque ha la capacità di interrogare lo scrittore, spesso sulle sue incapacità, sui tormenti, sui dubbi che mai riuscirà a fare emergere come verità.

Ma accade anche il contrario. Che sia il personaggio a lasciare incompleto di parole lo scrittore.

Così avvenne una sera. L’ombra di una donna entrò nel mio studio e si sedette sulla poltrona. Timida, almeno così mi appariva. Mi lasciò poche pagine e il suo nome. Si chiamava Nina. Poi andò via.

Iniziò a scrivere versi al posto mio: non desiderava che la raccontassi. Mi rubava parole anziché allinearsi nel racconto. Era camaleontica, sfuggiva, faticava a comporsi sulla pagina. Eppure, era presente come l’anima stessa.

Lessi quelle poche pagine a Camilleri che le apprezzò, invitandomi a continuare.

Gli raccontai della sua fuga, dell’impossibilità di proseguire nella stesura del romanzo.

Era accaduto anche a lui, durante la composizione del Birraio di Preston, che un personaggio non volesse più fare ritorno. Poi si era deciso, mi disse. E aveva dettato le sue regole.

“Tu aspettala, vedi se torna. Siediti a scrivere. Ma questo non potremmo dirlo a nessuno che per pazzi ci prendono” – concluse.

Tornò. La raccontai e seppi di lei che non è “Mai stata al mondo”.


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