25 Giugno 2010, 19:09
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Quando a Campobello di Licata si dice “Linghi linghi” il riferimento è solo uno: il boss. Vincenzo Falsone era un capo mafia di vecchio stile: fedele, lungimirante, onorato dai vertici. Sapeva muoversi con fermezza dentro il clima focoso della guerra di mafia. Tra gli anni ’80 e i ’90 a Campobello di Licata i conflitti tra Cosa Nostra e Stidda si traducevano in guerriglie urbane. E fu proprio in uno di quegli episodi, nel 1991, che il boss Vincenzo “Linghi linghi” finì ucciso insieme al figlio maggiore, Angelo. Giuseppe Falsone, il figlio prediletto, all’epoca aveva poco più di vent’anni, ma gli bastavano per giurare la vendetta del padre e per promettergli di diventare un suo degno erede. Ci volle poco perché Falsone tenesse fede al giuramento, freddando Salvatore Ingaglio, uno dei killer del padre. Falsone si fa notare subito dalla mafia che conta, dai palermitani, dallo “zzu Binu” Provenzano, verso il quale il giovane boss ha un ascendente particolare. È un ottimo tiratore, Falsone, ha una mira perfetta e diversi tra gli omicidi, compiuti negli anni ’90 nell’agrigentino, gli sono attribuiti – non da ultimo quello del consigliere comunale di Agrigento, Ignazio Vetro, ucciso nel 1994. Giuseppe Falsone a Campobello ha l’atteggiamento del boss, passeggia per le vie del paese cavalcando un puro sangue arabo e seducendo tante giovani. Nel 1999, però, iniziano i provvedimenti cautelari a suo carico. Falsone non ci pensa un attimo a passare in carcere gli anni della gioventù, esaurendo il suo sogno di ascesa mafiosa. Si dà alla macchia. Dalla sua ha sempre l’appoggio di Bernando Provenzano, che ne sostiene la candidatura a boss di Cosa Nostra agrigentina. Siamo nel 2002 quando Falsone prende in mano le redini dell’organizzazione, succedendo all’altro boss agrigentino, Maurizio Di Gati, ora collaboratore di giustizia. Nel frattempo, sulla testa di Falsone ci sono le taglie di decine di accuse, che si intersecano a sentenze e ad altre accuse: associazione mafiosa, omicidio, traffico internazionale di stupefacenti. Falsone entra nel registro dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia. “È un sanguinario, determinato come pochi altri – spiegano gli inquirenti – capace di qualsiasi cosa pur di portare a termine la sua missione mafiosa”. Negli anni, Giuseppe Falsone è riuscito a creare intorno a sé una fortezza, fatta di soldi, grandi imprese, ma soprattutto di uomini che, coesi e ramificati, ne coadiuvano la latitanza. “Pare che i suoi fiancheggiatori siano di un numero infinito – dicono ancora gli inquirenti -. Vero è – aggiungono – che Falsone non teme i sacrifici e pur di non farsi prendere, probabilmente, fa chilometri e chilometri a piedi”. Negli anni, diversi sono stati i colpi inferti al boss, soprattutto in termini di sequestri di beni, riconducibili alla gestione di Falsone. Il boss ha un fiuto particolare per gli affari nella grande distribuzione e nelle società per azioni. Negli ultimi anni, infatti, sono stati messi a segno il blitz Agorà, con il sequestro del centro commerciale Le Vigne, lo scorso novembre l’operazione Minoa – con il sequestro di diverse imprese edili – e oggi Apocalisse – tutti progetti a sei zeri che, secondo le accuse, sarebbero serviti a incrementare la potenza economica del boss. Colpo su colpo per togliere aria ai polmoni di un’organizzazione, che ad Agrigento, pare molto più scientifica che altrove, nella capacità di protezione del boss. Lui, però, Giuseppe Falsone non si trovava. Pur essendo legatissimo ai familiari, all’anziana madre, alla sorella Maria Carmela. E al fratello Calogero, non si concede fragilità. Se ne scoprivano i covi caldi, si seguivano le indicazioni di quello che era un suo fedelissimo – Giuseppe Sardino – ma che poi è diventato un temibile collaboratore di giustizia – si allentano gli anelli della catena dei complici, ma non si c’entrava l’obiettivo. Almeno fino a ieri.
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25 Giugno 2010, 19:09