10 Maggio 2011, 17:29
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Il tempo di togliere il separè bianco che protegge dalla vista della stampa il capitano Sergio De Caprio, nome di battaglia Ultimo, accorso in udienza per un confronto con il colonnello Massimo Giraudo. Il tempo di un breve botta e risposta tra i due ed ecco entrare scortato Massimo Ciancimino, camicia bianca a righine blu e pantaloni blu scuri, si presenta per la prima volta in un’inedita veste di detenuto, dopo l’accusa di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ha il viso scavato, la visibile stanchezza che risente di un cambio di programma di una vacanza pasquale trascorsa al carcere Pagliarelli piuttosto che in Francia, ma soprattutto il colpo del suo arresto predisposto dal pubblico ministero Antonio Ingroia, quello stesso magistrato con il quale aveva instaurato in questi anni un legame e “un’apertura”, come lui stesso l’ha definita,.
E di questo non fa mistero Ciancimino nel corso dell’udienza, non risparmiandosi nemmeno qualche frecciatina risentita alle domande poste dalla pubblica accusa: “Da quando collaboro con la Procura di Palermo ho solo aggravato la mia posizione processuale, sono sempre più solo e i pm con cui avevo parlato fino ad ora, oggi mi hanno inquisito”. Mette gli occhiali rotondi con montatura nera quando gli vengono poste con tono autoritario, le domande del pm Nino Di Matteo. Il figlio di Don Vito lo guarda negli occhi sicuro, senza esitazioni. È solo quando si tratta di rispondere che distoglie lo sguardo, come se d’un tratto avesse perso tutta quella sua sicurezza, tipica di chi è forte delle proprie ragioni, insomma di chi deposita stralci di verità immacolati. Succede quando parla di “Mister X”, il potenziale puparo e suggeritore, la cui identità corrisponderebbe a quella di un carabiniere autista del generale Paolantonio e che, dopo il 7 aprile 2010, gli avrebbe fornito per posta alcune lettere scritte dal padre Vito Ciancimino, tra cui l’elenco di nomi eccellenti in cui compare quello di Gianni De Gennaro, per cui ora Massimo C. si trova inquisito.
Lo stesso personaggio che a febbraio-marzo di quest’anno, nel corso del suo ultimo incontro, lo avrebbe messo in guardia da possibili attentati che da lì a poco sarebbero stati compiuti contro la sua persona. Qualcosa infatti avvenne, l’emozione è palpabile nel racconto di Ciancimino della notte in cui gli sarebbe stata recapitata al suo indirizzo palermitano di via Torrearsa, uno scatolo con i 40 candelotti di dinamite. Candelotti che diventeranno 50 quando a prendere la parola per formulare le domande è la difesa di Mori. Ma c’è di più, la raffica di parole e richieste da parte della difesa, mettono in sofferenza evidente la seraficità di Ciancimino che inizia così un ripetuto lancio di sguardi verso il banco dove siede Ingroia. All’inizio veloci, radi, ma che aumentano all’invigorirsi della foga del difensore di Mori; sempre di più fino a quando la testa non inizia un moto costante a destra, sinistra, destra, sinistra. Il dottor Ingroia distoglie lo sguardo, fissa il cellulare, scrive su fogli ma non guarda. Intanto passano le ore, le capacità d’ascolto si abbassano, e Ciancimino non riesce più a comprendere le domande, il presidente è costretto a ripeterle. Il figlio di don Vito sbotta in preda alla stanchezza sulla dinamite nascosta nella sua casa, rivela il ritrovamento in una scatola di una foto di suo figlio mentre entra nella macchina della scorta e una richiesta di 750 mila euro. Da parte di chi? Un tale Matteo Messina Denaro.
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10 Maggio 2011, 17:29