Ciancio e il concorso esterno | Un reato che non esiste

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17 Febbraio 2016, 12:42

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PALERMO – La sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’editore Mario Ciancio ripropone il tema del “concorso esterno in associazione mafiosa”. Un reato che nel codice penale non esiste. E pensare che già trent’anni fa Giovanni Falcone sottolineava la necessità di una “tipizzazione” per colpire la cosiddetta borghesia mafiosa, i colletti bianchi in combutta con i boss. E cioè quei personaggi che mafiosi non erano e non sono ma che contribuiscono a rafforzare l’organizzazione criminale.

Le motivazioni con cui il giudice per le indagini preliminari di Catania spiega perché Ciancio non può essere processato dimostrano che la questione è ancora aperta, nonostante alcune sentenze della Cassazione possano fare pensare il contrario. È la formula usata dal giudice catanese a dimostrarlo: “Il fatto non è previsto della legge come reato”. Sul punto non ci sono dubbi. Il codice prevede l’art. 416 bis (associazione mafiosa), e l’art, 110 (concorso nel reato). Alla fine degli anni Ottanta arrivò il cosiddetto “combinato disposto” in nome del quale sono fioccate le sentenze. E così il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato cristallizzato nella giurisprudenza. Per molti, specie tra i i pm, è una questione di lana caprina. Nessuno scandalo: le norme generali sul concorso sono state adattate al reato associativo. E sono arrivate condanne legittimate in tre gradi di giudizio.

Ogni tanto capita, però, che qualcuno sostenga il contrario. Secondo il gip catanese, la “creazione di una fattispecie di reato non può che essere demandata al legislatore che deve farsi carico di stabilire i confini di tale figure, secondo precisi criteri di ermeneutica giuridica” e non “lasciare all’interprete il compito di definire qualcosa che, allo stato, non è definibile”. Ed invece, “la creazione del cosiddetto concorso esterno appare, purtroppo, una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Attenzione, però, sottolinea il giudice, “con ciò non vuole dirsi che la zona grigia dei cosiddetti colletti bianchi sia una zona neutra, non passibile di controllo giurisdizionale. Si può affermare che il fenomeno è più delicato di quanto non si pensi, ed inoltre ha avuto un’evoluzione, in negativo, che negli anni Ottanta non si poteva neppure prevedere. In sostanza l’intuizione di Giovanni Falcone e la conseguente creazione di una fattispecie di reato che potesse coprire la zona grigia della collusione con la mafia oggi non può che essere demandata al legislatore, il quale deve farsi carico di stabilire i confini di tali figure di reato”.

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Insomma, è sempre mancato il passaggio legislativo per inserire il reato nel codice penale. E dire che negli anni le occasioni non sono mancate. E neppure i processi. Giulio Andreotti, Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri – solo per fare tre esempi con esiti processuali diversi – sono stati giudicati per concorso esterno, alimentando discussioni in punto di diritto. Diversi i deputati di tutto lo schieramento parlamentare che hanno presentato proposte di legge specifiche. Nulla è cambiato. Ogni tanto qualcuno ci ricorda, però, che il reato, codice alla mano, non esiste, senza per questo volere negare la gravità dei fatti di cui sono chiamati a rispondere gli imputati.

Nei mesi scorsi ad attirare l’attenzione era stata la sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, ha stabilito che l’ex superpoliziotto Bruno Contrada non andava condannato perché all’epoca dei fatti oggetto del processo il reato non “era sufficientemente chiaro”. I paletti sarebbe stati piantati dalla Cassazione con una sentenza del 1994 e due negli anni Duemila. I supremi giudici respinsero le tesi degli avvocati difensori secondo cui, il concorso esterno era il frutto di una forzatura giurisprudenziale. Dal Parlamento, però, ancora nessuna novità. Si resta ancorati al vecchio combinato che fa tanto da discutere secondo cui e al reato di concorso esterno che si realizza quando una persona, senza essere stabilmente inserita in Cosa nostra, svolge un’attività che contribuisce alle finalità dell’organizzazione mafiosa. Lo stesso reato su cui il giudice che ha trattato il caso Ciancio si pronuncia dicendo che “non consente di sostenere l’accusa davanti al Tribunale”. Così è per Ciancio, così non è stato per tanti altri imputati.

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17 Febbraio 2016, 12:42

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