12 Gennaio 2015, 17:05
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Se fossi stato tu a dover dare la notizia che eri morto, a dover preparare i lanci per il sito, a dover organizzare quell’apparato di informazione listata a lutto e a volte un po’ ipocrita che nel giornalismo è il funerale di carta che si deve a un collega e un amico, mi avresti chiamato e avresti detto: “Pupetto, dobbiamo organizzare i soccorsi”.
Pupetto tu, pupetto io. Era il gioco di chi era cresciuto al Giornale di Sicilia. Ricordi bene: quel “pupetto” era il richiamo di Peppino Sottile a noi “biondini” o praticanti di redazione, ma ci restava attaccato per la vita. “Pupetto” poteva significare un cazziatone, una richiesta impossibile, un pezzo rognoso, a volte ci scappava pure un complimento detto quasi come un rimprovero. Alcuni pupetti tremavano all’appello, altri preparavano le controffensive, altri ancora si presentavano col capo basso per la decapitazione.
“Sì, vabbè, pupetto, però non esageriamo con il piagnisteo”, avresti detto. “Alla fine è soltanto morto, niente di più”. Lo so, pupetto, che non si deve esagerare con l’amarcord di quando eravamo giovani, poveri e felici. Però lo sai bene che ogni generazione conia un gergo, un suo linguaggio. C’era il “pupetto”, ma c’era pure quell’altro modo di rispondere al telefono che tu fai sempre alla perfezione, con lo stesso tono: “Cucù. Chi lo vuole?”. Era il marchio di fabbrica di Armanduccio Vaccarella, e sai che io e te alla fine con lui ce la cavavamo sempre bene perché eravamo veloci nello scrivere, cosa che un capocronista apprezza più di ogni altra cosa quando le pagine devono chiudere e da giù il proto insiste per avere tutto in tipografia nel giro di due minuti.
Era l’età del piombo, quella lì, pupetto. Ce la siamo passati a fianco, giovani, coetanei e arrivati più o meno assieme in via Lincoln. Allora non potevamo essere amici, ma un po’ rivali lo eravamo. Battevamo quasi le stesse strade – la politica, il consiglio comunale, la cronaca che a quei tempi si chiamava bianca – era inevitabile che ci mettessero in concorrenza e pure noi la vivevamo un po’ così. Ci devo scrivere pure che mi faceva sorridere molto quel tuo modo di camminare, sulle punte dei piedi, quasi saltando, buttando avanti il corpo come se stessi per spiccare un balzo? “No, pupetto – mi dici al telefono – questa cosa la eviterei, non racconta niente”.
Quando me ne andai da Palermo ti lasciai al Giornale di Sicilia, dove ti ritrovavo ripassando da lì, i piedi sulla scrivania, l’aria di chi non sta facendo mai un cazzo. E’ chiaro che come tutti gli emigrati, pensavo di avere fatto la scelta più giusta e più difficile, rispetto a chi invece aveva scelto la pancia comoda di un giornale vecchio di un secolo, di una carriera interna sempre più veloce, di relazioni sempre più consolidate e collaudate.
Avevi una dote speciale: non eri di quelli che si lamentavano, che piangevano miseria, che recriminavano su occasioni mancate e opportunità perdute, che raccontavano con invidia e meschinità storie di promozioni, di scatti di carriera, di sorpassi in curva. Ti riconosco la leggerezza di chi vive il suo tempo con curiosità, volevi conoscere cosa si diceva nelle redazioni di Roma e di Milano, ma spesso ne sapevi più di me, perché avevi fiuto sui fatti, a volte ridicoli a volte banali, di questo mestiere fatto di tante piccole primedonne.
“Pupetto, non facciamone un santino”, mi dici. Hai ragione, pupetto. Lasciamo perdere i santini, che non si addicono a nessuno di noi due. Certo, non ti posso negare lo stupore che ho provato sapendo che avevi deciso di emigrare restando a Palermo, che secondo me non è una cosa facile. La simpatia, l’amicizia dei tempi ragazzi passati assieme allora prese i connotati della stima. Lasciare un posto sicuro, una carriera più certa che incerta, uno stipendio certo, una posizione costruita con la pazienza del ragno che tesse la sua tela per inventarsi qualcosa di nuovo è stata una bella impresa. Importante, secondo me.
“Pupetto, però scrivilo come solo tu sai fare”, mi raccomandi. E sappiamo entrambi che è la vecchia tecnica da giornalista che da una parte compiace il collega, dall’altra lo prende per il culo. Come so scriverlo io? “Pupetto, scrivi una savatterata”, e sento che sghignazzi dall’altra parte del telefono. Ma allora mi metto serio e scrivo che in una terra che dice di non credere nelle idee, che ha letto male Tomasi di Lampedusa e che continua a ripeterlo peggio, il fatto che ci fosse qualcuno pronto a scommettere su un’idea – un’idea di carta – per costruire informazione in una Sicilia dove sembrava tutti gli spazi fossero occupati dai giornali storici, mi appare come un eroismo moderno. O, più semplicemente, la contraddizione vivente del luogo comune che vuole sempre castigato il peccato del fare.
“Pupetto, ti stai allargando. Scrivilo come minchia vuoi scriverlo”, e sento che già ti squilla un altro telefono. “Cucù. Chi lo vuole?”. E’ morto un amico, un collega è un pezzo di vita comune che se ne va, e tu hai tanto da fare. Bisogna mettere i pezzi in pagina, chiedere commenti, raccogliere dichiarazioni. E’ un’edizione speciale. Io scrivo quello che so scrivere. Ciao, pupetto, ci sentiamo presto.
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12 Gennaio 2015, 17:05