15 Ottobre 2017, 15:57
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PALERMO – Non ci sono più i pentiti di una volta. Quelli nuovi hanno poco da raccontare e a volte non brillano per affidabilità. I vecchi hanno smesso di riempire verbali e sono diventati scrittori, opinionisti, redattori di articoli sulla stampa cartacea e on line. I passaggi mediatici sono l’antidoto contro il tempo che scorre. Il valore di ciò che raccontano non è più processuale, ma mediatico.
Francesco Chiarello è uno dei pentiti di ultima generazione. A lui si deve la riapertura delle indagini sull’omicidio del penalista palermitano Enzo Fragalà. Solo che un altro aspirante collaboratore e un testimone oculare del delitto offrono una verità che si scontra con quella che Chiarello dice di avere appreso de relato. Il punto è che l’attendibilità di Chiarello ha vacillato in altri processi. Gli altri neo collaboratori sono stati utili per chiarire per lo più storie di pizzo e droga. Sono gli unici argomenti di cui si sono occupati quando facevano parte di Cosa nostra, anche perché la mafia di oggi è soprattutto estorsioni e traffici di stupefacenti. Quando c’è da ammazzare qualcuno, perché la mafia ancora oggi spara e uccide, il grilletto si preme sulla base di un accordo riservato. Le cimici, infatti, quelle che registrano capi e picciotti chiacchieroni, carpiscono scarsissime informazioni sui delitti.
Per conoscere i segreti veri della mafia, quelli che ancora non si conoscono della stagione post corleonese, si dovrebbe sperare nella collaborazione di qualcuno che è stato scarcerato. Chissà. Nel frattempo si assiste al proliferare delle apparizioni dei vecchi pentiti che non abbandonano la scena. Tra i più attivi, Franco Di Carlo, che disserta su ogni faccenda del passato: dalla strage sul rapido 904 Napoli- Milano alla trattativa Stato-mafia. Sono passati decenni, ma c’è sempre un particolare da aggiungere perché, sono parole dello stesso Di Carlo, si “parla quando è il momento giusto per farlo”. E soprattutto “quando davanti a me ci sono gli interlocutori che vogliono ascoltare quello che ho da dire”.
Quelli che “vogliono ascoltare”, da qualche tempo, vengono identificati in quel gruppo di persone, magistrati inclusi, che gira in lungo e in largo l’Italia, annunciando di avere trovato le prove dei misteri italiani e postulando l’esistenza della trattativa Stato-mafia. Postulato che, con la collaborazione dei pentiti, viene portato nei processi. Non importa che alcuni di essi si siano conclusi con l’assoluzione, ad esempio quella ottenuta dal generale Mario Mori, ormai definitiva, o quella di primo grado di Calogero Mannino, la strategia processuale non cambia.
Nella galassia dell’antimafia che milita sui bollettini di genere ci sono pure i testimoni di giustizia. Angelo Niceta, ad esempio, il cui pensiero si conosce anche dalle interviste, è stato intruppato fra i trattativisti. Ruolo importante quello di Niceta, membro di una famiglia di noti imprenditori palermitani e grande accusatore dei cugini a cui sono stati sequestrati i beni, visto che sta puntellando le traballanti accuse di Massimo Ciancimino. Ad assisterlo, con il meccanismo delle porte girevoli della giustizia, è stato l’avvocato Antonio Ingroia, il ‘padre’ del processo Trattativa. Un meccanismo, la cui legittimità non è discussione, che lo ha portato ad assumere pure la difesa dei marescialli Saverio Masi e Salvatore Fiducia accusato di avere calunniato alcuni ufficiali dell’Arma, accusandoli di avere, tra le altre cose, impedito che venisse scoperto il papello con le richieste di Totò Riina allo Stato per fermare le bombe.
Il modello palermitano ha fatto breccia anche lontano dalla Sicilia. Le indagini sulla trattativa Stato-mafia si sono estese in Calabria. C’era un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, così sostiene l’accusa, per costringere le istituzioni ad allentare la severità delle norme contro la criminalità organizzata. Mentre si celebra ancora il dibattimento in Corte d’assise a Palermo c’è già materiale per i futuri processi. Ne fanno parte le confessioni di Nino Lo Giudice, pentito calabrese che ha preso tempo prima di dire che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato Giovanni Aiello, faccia da mostro, misterioso fra i misteriosi servitori infedeli dello Stato, deceduto poco tempo fa. I “segreti che si è portato nella tomba” – la frase è stata subito spesa alla notizia del decesso dell’ex poliziotto – alimenteranno il copione del circolo privato dell’antimafia dove ci si incontra, si discute e si amministra la giustizia pubblica.
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15 Ottobre 2017, 15:57