Clan Scalisi, pioggia di condanne |’Caliddu’ si pente: trema la cosca

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04 Novembre 2016, 05:25

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CATANIA – Fibrillazioni nella mafia adranita. I boss e i picciotti del clan Scalisi, da qualche mese, tremano. Nel processo Time Out, terminato con una serie di condanne per i referenti adraniti dei Laudani e professionisti delle estorsioni, è saltato fuori un nuovo pentito. Il suo nome è uno di quelli che conta all’interno della “famiglia”. A fare il salto del fosso è stato Gaetano Di Marco: quel “Caliddu” che Pippo Scarvaglieri, il reggente operativo degli Scalisi, aveva nominato “capo a tempo” fino a quando non sarebbe uscito dal carcere il “figlioccio” Giuseppe Santangelo, morto (per cause naturali) due anni fa. Per un periodo quindi il neo collaboratore di giustizia avrebbe retto le fila della cosca, anche se la sua nomina aveva fatto storcere il muso addirittura ai catanesi.  Ad un certo punto (le indagini riguardano gli anni 2011 e 2012) dal carcere di Sulmona Pippo Scarvaglieri pianifica una nuova strategia criminale e “defila” dalla gestione i propri congiunti. Dovrà intervenire addirittura Omar Scaravilli, vertice dei Laudani di Catania (la sua figura emerge nella maxi retata Vicerè) che avrebbe indicato in Francesco Coco, l’uomo che doveva affiancare il reggente indicato dal boss in carcere.

Lo scacchiere degli imputati del processo abbreviato scaturito dall’ordinanza Time Out è composto dal reggente Pippo Scarvaglieri, Alfio Di Prima (cognato del reggente), Pietro Maccarrone, Pietro Severino, Davide di Marco, Massimo Di Guardia, Francesco Coco e Gaetano Di Marco. Il procedimento abbreviato, tutti hanno scelto il rito alternativo, si è celebrato davanti al Gup Giancarlo Cascino che ha comminato una serie di condanne che vanno dai 4 ai 2 anni. Pene a prima vista relativamente basse, ma va considerata la riduzione già effetto del rito abbreviato e anche il fatto che il Gup ha considerato – per gli imputati chiave – la continuazione con altre sentenze. Il giudice ha invece rinviato gli atti di Francesco Coco al pubblico ministero.

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L’ossatura dell’inchiesta è composta dalle varie intercettazioni dei colloqui di Scarvaglieri con le sorelle nel carcere di Sulmona. Dalle conversazioni emergono i dissidi familiari con il cognato Alfio Di Prima (“Se no a tuo marito davanti a suo figlio a testa gliela svitavo così… gli pisciavo in testa… perché è infami”), la nomina del “figlioccio” Giuseppe Santangelo a nuovo reggente (“ve lo dico a livello visivo… guai chi mi tocca a mio “figlioccio” … fate uscire a quello, fate uscire a mio figlioccio… che io ho un progetto in testa… e con mio figlioccio lo porto a compimento”) e la reazione del boss all’intervento del boss dei Laudani quando intesta a Gaetano Di Marco, nuovo pentito, il comando dell’organizzazione adranita in attesa della scarcerazione del pupillo, ormai defunto, Giuseppe Santangelo detto “Manitta”. Scarvaglieri con le sue nomine aveva di fatto estromesso Francesco Coco e Carmelo Scafidi, due figure storiche del clan. I Laudani, per fermare anche una possibile guerra intestina, vogliono che Francesco Coco affianchi il reggente indicato dal boss in carcere. Omar Scaravilli avrebbe, quindi, “mandato a chiamare Caliddu”. Una notizia di cui viene informato Scarvaglieri, che in un primo momento non avrebbe gradito l’intromissione del boss catanese (“… ma chi cazzo sei tu ?! … ti vengo a dare conti a casa tua? … no ! … e tu non vieni a dare conti a me !”), ma dopo riflettendo suggerisce al cognato di evitare contrasti con i Musi I Ficurina (“lo risposta che debbono dare ad Omar è questa ( … ) ~. noi siamo tutti una cosa ( … ) noi siamo tutti “sotto una famiglia”). Questi aspetti però sono stati smentiti dal neo collaboratore Gaetano Di Marco.
Gli affari illeciti al centro del processo sono le estorsioni. L’attività tradizionale delle mafia ad Adrano sarebbe radicata in modo profondo anche perchè il terreno fertile dell’omertà è molto diffuso. Individuare le parti offese è stato infatti reso difficoltoso “dalla poca collaborazione degli adraniti”, così come avevano spiegato il procuratore aggiunto Michelangelo Patanè e il sostituto Assunta Musella alla stampa.
Non sono solo le dichiarazioni del neo collaboratore Gaetano Di Marco a comporre il fascicolo del processo. Già in sede di udienze davanti al Tribunale del Riesame i magistrati della Dda avevano depositato i verbali di Giuseppe Liotta. L’ex rapinatore ha fotografato l’organigramma della cupola adranita, qualificando Concetta Scalisi la donna che porta “il nome della famiglia” e Giuseppe Scarvaglieri, come il “braccio meccanico” del clan. Sul nuovo pentito Liotta, nipote di Pietro Maccarrone, ha detto che si “occupava delle estorsioni”. A questo punto Caliddu potrebbe fornire anche agli inquirenti “la carte delle estorsioni degli Scalisi”.

LA SENTENZA – Le pene inflitte dal Gup Giancarlo Cascino sono per la maggior parte in continuazione di altre sentenze di condanna dei vari imputati. Per il “patriota” Giuseppe Scarvaglieri e il cognato Alfio Di Prima (ritenuta – come detto – la continuazione) la condanna è di 4 anni di reclusione per il primo e 2 anni e quattro mesi per il secondo. La pena più pesante è quella comminata a Pietro Maccarrone: 4 anni e 8 mesi. Riconosciuta la continuazione con altra sentenza anche per Pietro Severino (2 anni e 800 euro di multa), Davide di Marco (quattro anni e 1000 euro di multa) e Massimo Di Guardia (quattro anni e 1000 euro di multa). Tre anni e 1000 euro di multa per il collaboratore di giustizia Gaetano Di Marco.

Il Giudice ha disposto la trasmissione degli atti di Francesco Coco al pm, “poiché il fatto dallo stesso commesso – scrive Cascino – come accertato, risulta diverso da quello contestato nel capo di imputazione”. Soddisfatto della decisione il difensore, l’avvocato Francesco Messina. “Il Gup – commenta – ha dimostrato che anche nei processi di mafia si incontrano giudici che valutano le prove secondo il modello legale del codice di procedura penale e non sommariamente”.

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04 Novembre 2016, 05:25

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