14 Febbraio 2015, 05:46
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CATANIA – Tutti al momento sono in gattabuia. I 27 arrestati nell’inchiesta della Squadra Mobile Final Blow ora stanno affrontando le udienze del Tribunale del Riesame chiamato a confermare l’ordinanza firmata da Sebastiano Di Giacomo Barbagallo. La retata ha di fatto smantellato il clan di cui fu reggente Luigi Jimmy Miano e che aveva creato un asse criminale tra Catania e Milano. I due capi, riconosciuti anche dai collaboratori di giustizia, sono i fratelli Francesco e Carmelo Di Stefano. Solo il secondo è coinvolto in quest’inchiesta: è quel famoso latitante che aveva ottenuto i domiciliari nel 2008 per “gravissimi motivi di Salute”, risultava affetto anche da “paraplegìa flaccida”. Peccato però che quando nel 2009 la polizia lo cattura lo trova in “perfette condizioni di salute” e alla guida di una lussuosa Bmw.
Carmelo e il fratello Francesco, che è sotto processo per l’omicidio dello spacciatore Daniele Paratore, hanno iniziato quasi contestualmente la latitanza. Era necessario riorganizzare le fila delle cosca di cui Ciccu pasta ca sassa era diventato reggente. Siamo nel 2009: un particolare momento di fibrillazione che vedeva in aperto contrasto Cursoti Milanesi e Cappello – Bonaccorsi.
La latitanza dei due capi andava ben protetta, soprattutto da possibili irruzioni della polizia. Ecco perché i sodali affinano stratagemmi e stabiliscono un linguaggio in codice che potesse depistare le indagini delle polizia.
“LA CAPANNA”. I poliziotti riescono a piazzare una telecamera nel covo dei due latitanti. Durante le conversazioni il nascondiglio viene chiamato “capanna”. I Di Stefano avevano trovato rifugio in una villetta isolata a Piedimonte Etneo. Le intercettazioni permettono di comprendere che la “capanna” era anche una sorta di base logistica del clan. Come conferma il collaboratore di giustizia Michele Musumeci. E sono inconfutabili anche le immagini registrate davanti alla villetta.
“LORENZO E GIORGIO”. Non potevano certo farsi chiamare “Ciccio” e “Carmelo”, le telefonate avrebbero messo immediatamente in allarme la polizia che stava cercando di catturarli. Così Carmelo diventa “Lorenzo”, mentre il capo Francesco Distefano è “Giorgio”. Un codice ben congeniato che doveva servire a sviare l’attenzione degli inquirenti. E Francesco Di Stefano inoltre per evitare brutte sorprese aveva anche delegato Matteo Mirabella ad andare dal suo avvocato. In una conversazione captata Di Stefano manda un consiglio al suo avvocato attraverso il fedele picciotto: “E’ lì, seduto con te?… e digli che si comporta bene, che già mi ha fatto arrabbiare”. Un carattere iroso quello del boss.
“FICARRA E PICONE”. E i nomi in codice non sono riservati solo ai boss. I Milanesi si ingegnano anche per lanciare Sos sulla presenza degli “sbirri”. A Nesima è altissimo il timore per la presenza della polizia nel quartiere. E allora gli agenti di polizia, durante le telefonate, sono indicati con i nomi dei noti comici palermitani “Ficarra e Picone”. Ma in altre circostanze la fantasia viene meno e gli agenti diventano “suocera, suocero e addirittura suoceri”. Termini questi già utilizzati da altri clan e che gli investigatori hanno imparato a conoscere e decriptare.
“IL PRANZO INDIGESTO”. La latitanza di Carmelo Di Stefano, condannato a 30 anni di carcere per mafia, omicidio e droga, finisce il pomeriggio del 23 novembre 2009. Gli agenti lo arrestano all’interno di un ristorante di Mascali, sulla costa ionica. Di Stefano era arrivato con la moglie alla guida di una Bmw che era andato a prenderlo alla “capanna”. Nonostante la sua “paraplegia” – come detto – i poliziotti quando lo arrestano lo trovano (o almeno appare) in perfette condizioni fisiche. La polizia arresta il latitante e la notizia arriva all’orecchie di Christian Parisi che chiama un uomo e avverte: “Forse hanno arrestato Lorenzo!”.
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14 Febbraio 2015, 05:46