Come risolvere il precariato

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06 Luglio 2014, 09:28

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Politici autorevoli per ruolo ed esperienza (Crocetta, Faraone) hanno formulato, in occasioni e sedi diverse, un’ipotesi per l’eliminazione del “precariato” in Sicilia che conviene analizzare e discutere.

Proviamo comunque a riassumerla nei passaggi fondamentali. Le attività che dovrebbero svolgere le strutture in cui operano i precari sono svolte male – si sostiene – e impediscono la crescita di iniziative economiche espletate dai privati in modo “sano”. Si affievoliscono i livelli di tutela di importanti diritti dei cittadini connessi al godimento dei servizi erogati dalle strutture in cui operano i precari. Data questa premessa, un’ipotesi di soluzione potrebbe essere quella di ricollocare i precari in una Agenzia Regionale concedendo loro un reddito minimo indipendentemente da qualsiasi prestazione di lavoro e poi aprire i settori in cui operavano i precari all’iniziativa privata. Imponendo una percentuale di assorbimento dei precari stessi. Un disegno di legge presentato dal Governo Crocetta, poi precipitosamente ritirato, prevedeva un obbligo per le imprese vincitrici di appalti per opere e servizi di assumere il 20% del loro personale proprio nel bacino dei precari.

Prima di proseguire è opportuno ricordare qualche numero: il bacino dei precari è costituito da 18mila LSU (lavoratori socialmente utili) collocati negli Enti locali, 700 contrattisti della Regione, 3mila PIP (Piani di Inserimento Professionale) 1000 operai dei Consorzi di Bonifica ed oltre 8mila ASU (attività socialmente utili). A questi occorre aggiungere 28mila forestali che lavorano, però, solo sei mesi per anno.

Andiamo a commentare la proposta dando per scontata l’essenzialità con la quale è stata espressa che condiziona, ovviamente, le nostre osservazioni. E ribadendo l’apprezzamento per aver sollevato una questione senza le timidezze che spesso nascondono interessi di natura clientelare. C’è da esprimere pieno apprezzamento, e sostegno, ad una politica della Regione sui precari che rifiuta derive clientelari, abbandona vecchi stilemi di pura e semplice stabilizzazione, affronta un problema basilare: come fare diventare i precari una risorsa produttiva e non semplicemente una voce penalizzante del bilancio regionale. E, soprattutto, come sottoporli ad una mappatura ricognitiva sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Mappatura che, ad oggi, clamorosamente non è disponibile malgrado la criticità del precariato pubblico in Sicilia sia manifesta già da un trentennio.

Ma passiamo ora ad esaminare il progetto, sotto il profilo delle sue ricadute sul mercato del lavoro. Chiedere (meglio, imporre) alle imprese di rafforzare l’occupazione con una quota di addetti che porteranno in dote contributi fiscali e contributivi (scelti, si presume, per coerenza tra qualifiche e tipologia di impiego) può significare tre cose: se l’impresa considera l’occupazione una variabile indipendente, rispetto alle attività da espletare, ed è già al completo per quanto riguarda i suoi organici, all’assunzione del 20% dei precari potrebbe corrispondere il licenziamento di eguale quota di dipendenti senza dote (aumento della disoccupazione). Ovvero, qualora l’occupazione sia una variabile dipendente, l’esclusione simmetrica dell’assunzione di una corrispondente quota di lavoratori non precari e quindi, anche in questo caso, un mancato alleggerimento della disoccupazione. Ancora, terzo caso,un eccesso di occupazione per l’impresa che potrebbe tradursi, come insegnano i manuali, in una diminuzione di produttività. Ultima possibilità: una falsa occupazione di precari creata al puro fine di rientrare nella premialità, con conseguenti fenomeni di illegalità. Ben conosciuti con riferimento ad altre situazioni di occupazione “forzata” o considerata premiale (si veda la grottesca esperienza della famosa legge 288).

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Secondo punto di riflessione: supponiamo che un geometra precario stia in questo momento operando nell’amministrazione regionale svolgendo una specifica funzione. Dirottato verso un impiego privato lo si dovrà pur sostituire. È fantapolitica, ma qualcuno, attrezzato in teoria e pratica del clientelismo, penserà già al supplente precario a tempo determinato. A prima vista, ogni forma di travaso provvisorio di precari dalla pubblica amministrazione al privato intanto non ha, almeno nel breve tempo, effetti positivi sul bilancio della Regione; provoca altresì squilibri nel mercato del lavoro, a meno di non formulare due ipotesi discutibili: la riapertura di assunzioni nel settore pubblico e l’aumento di occupazione in imprese che, in questo momento, per essere competitive a livello quanto meno europeo, dovrebbero tendere ad essere “capital intensive” più che “labour intensive”.

Veniamo ora ad alcune “tecnicalità” di applicazione, ragionando sempre in termini costruttivi. Occorrerà predisporre, nell’applicazione della legge, mappature, liste di “qualifica”, effettuare selezioni, contrattare mobilitazioni, formulare ed aggiornare: insomma sostenere “costi amministrativi” di non poco conto. Vista così sembrerebbe che le risorse da destinare al sostegno del precariato siano addirittura destinate ad aumentare rispetto a quelle imposte dalla pura e semplice stabilizzazione. C’è inoltre da chiedersi se questa decisione politica riuscirà ad evitare trabocchetti, impugnative, contenziosi, resistenze occulte sì da restare un mero effetto annuncio. L’accoglienza da parte dei sindacati locali è stata finora assai tiepida per ogni proposta formulata su questo modello.

Un’ultima osservazione. Nella perfetta convinzione della necessità di un metodo rivoluzionario per affrontare il problema dei precari, non li si potrebbe (magari, anche) rendere “produttivi” all’interno della Pubblica Amministrazione? E, qualora fosse giudicato utile predisporre un aiuto alle imprese siciliane, indicare per loro incentivi di seconda generazione più che addossargli forza-lavoro, sia pure finanziariamente “dotata”, con i “rischi” prima accennati?

 

 

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06 Luglio 2014, 09:28

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