“Consapevole apertura ai boss” |Così è stato chiesto il processo

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17 Luglio 2012, 12:07

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La “bomba” è arrivata la scorsa estate. La procura di Palermo, dopo quasi dieci anni di indagini, ha concluso l’inchiesta su Saverio Romano, per concorso esterno in associazione mafiosa, chiedendo l’archiviazione. Erano stati raccolti numerosi elementi, intercettazioni, dichiarazioni dei pentiti, sentenze, anche passate in giudicato, ma, secondo gli stessi pm, le prove non erano sufficienti a reggere l’accusa in giudizio. Ma dello stesso parere non è stato l’ufficio del gip di Palermo. In un provvedimento di poco più di cento pagine, il giudice Giuliano Castiglia, ha preso in considerazione le posizioni della procura, vagliato tutti gli elementi raccolti e ritenuto che, invece, il processo a Saverio Romano andava fatto. C’erano stati, infatti, alcuni passaggi che non erano stati adeguatamente approfonditi, altri che, a suo giudizio, risultavano invece riscontrati e, infine, una coerenza dei comportamenti del leader del Pid. Per questo ha ordinato ai pm di formulare l’imputazione contro Romano.
La relazione Genchi
Fra i punti citati dal giudice c’è una relazione risalente al 26 maggio 2003 di Gioacchino Genchi, ai tempi consulente della procura di Palermo. Nel 2002, infatti, il mafioso agrigentino Alberto Provenzano è stato arrestato e in tasca aveva un biglietto da visita di una pizzeria con riportati sul retro due numeri di telefono e la dicitura “Saverio Romano”. All’uomo dei telefoni è stato chiesto di indagare sul traffico telefonico e sulla corrispondenza fra il nome e il numero di telefono. Ed effettivamente l’utenza era intestata a Saverio Romano e il consulente concluse che quel numero risultava “nelle elaborazioni dei dati di traffico di numerosi soggetti condannati e/o indagati per reati di mafia, gravitanti prevalentemente nella zona di Corso dei Mille, Brancaccio, Villabate, Belmonte Mezzagno, ecc.”. In pratica Romano era in contatto con una serie di personaggi, soprattutto imprenditori, che erano stati coinvolti in indagini antimafia.
Le dichiarazioni di Giuffrè
Fra i punti da approfondire, il gip cita un interrogatorio di “manuzza”, il boss di Caccamo e braccio destro di Bernardo Provenzano, che a proposito di Romano diceva che era “un nome di cui si sentiva parlare” aggiungendo che, in genere, le persone che gravitavano all’Ircac fossero note in Cosa nostra. Romano, effettivamente, è stato presidente dell’Istituto regionale per il credito alla cooperazione dal novembre 1997 al giugno 2001.
L’incontro con Siino
Angelo Siino era considerato il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra. Secondo la ricostruzione del gip l’incontro sarebbe stato chiesto da Saverio Romano per il tramite di Rosario Enea. A Siino era stato anticipato che il motivo era la richiesta da parte di Romano di “un maggiore coinvolgimento delle imprese di Belmonte Mezzagno nel sistema spartitorio degli appalti”. Poi, però, s’era inserito Totò Cuffaro, allora candidato alle regionali, che con la sua “iperespansività” aveva monopolizzato l’incontro. Così non si parlò di appalti ma dei voti da dare a Cuffaro. Il gip non ha dubbi circa la possibilità che sia Romano che Cuffaro non fossero coscienti di trovarsi di fronte al “ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra”.
Le dichiarazioni di Lanzalaco
A parlare di Romano c’è anche un colletto bianco inserito nel sistema degli appalti. L’ingegnere Salvatore Lanzalaco, il 6 febbraio 2003, racconta come il leader del Pid e Cuffaro erano inseriti in un sistema corruttivo. E lui stesso sarebbe stato testimone oculare del passaggio di una mazzetta dalle mani dell’imprenditore Carmelo Virga a quelle di Romano e Cuffaro, in un locale fra Marineo e Bolognetta, nel Palermitano. Virga, poi, è cugino di Carmelo Grizzafi, il nipote di Totò Riina. Grizzafi avrebbe risolto i problemi che Virga aveva incontrato con mafiosi di Vicari e con Tommaso Cannella in particolare. E Romano, secondo il gip, non poteva non sapere. Virga, infatti, è stato uno dei suoi assistiti nella veste di avvocato. Dichiarazioni prive di riscontri che, però, secondo il gip, sono parzialmente verificate dalle rivelazioni di Angelo Siino.
Romano, Guttadauro e Miceli
Le intercettazioni nel salotto del medico e capomafia di Brancaccio, oltre Cuffaro, hanno riguardato anche il leader del Pid. L’intento, come noto, era quello di inserire un referente di Cosa nostra nelle liste per le elezioni regionali del 2001. Il ‘progetto’ sarebbe stato così presentato da Domenico Miceli a Totò Cuffaro e allo stesso Saverio Romano, che avrebbe dato parere positivo. Romano conosceva Guttadauro per essere stato designato suo difensore d’ufficio nel processo “Golden Market”, nella prima metà degli anni ’90. Miceli racconta al boss che con Romano non c’erano stati “mai grandi amori, anzi siamo stati sempre per …, diciamo, è chiddu ca s’a futtutu sempre i megghiu cosi …, e quindi c’è questo rapporto …, però, se Totò ha fatto una scelta, possiamo condividerla”. Un passaggio importante, per il gip, quel “possiamo condividerla”, che starebbe a indicare come con la candidatura di Romano alla Camera erano garantiti gli interessi generali di Cosa nostra. Poi, Miceli lo definisce “l’anima nera di Totò”, facendo riferimento a Cuffaro. Una frase che viene, involontariamente, spiegata dallo stesso Guttadauro immediatamente dopo: “Sì, ma l’anima nera, lui lo sa però che a Bagheria da quelle parti là … sbatte duro! Senza, senza di … senza un certo tipo di …”. Per il gip è un chiaro riferimento alla necessità di un supporto mafioso per spuntarla in quel collegio. La posizione di Romano sarebbe ulteriormente aggravato dalla sua presunta richiesta di incontrare Guttadauro. Lo racconta lo stesso boss a Salvatore Aragaona e se ne fa latore anche Mimmo Miceli che con il boss di Brancaccio concorda anche data e ora. Non ci sono prove oggettive che l’incontro sia avvenuto, anche se è convinzione “logico-esperienzale” del giudice che l’appuntamento si sia fatto.
Infine, Romano avrebbe svolto un ruolo decisivo nella candidatura di Miceli nel Cdu, essendo il responsabile della compilazione delle liste. E, anche ad elezioni compiute (Miceli sarà il primo dei non eletti), il sostegno di Romano non sarebbe mancato nell’assegnare a Miceli prima la presidenza della Multiservizi, poi l’assessorato alla Sanità del comune di Palermo e anche a una ventilata candidatura alla presidenza della Provincia del capoluogo dell’Isola. E, sulla stessa linea, a Romano si contesta di aver inserito Piero Acanto nelle liste del “Biancofiore”, assecondando così la volontà del capomafia di Villabate, Antonino Mandalà.
“La stessa famiglia” di Campanella
Francesco Campanella è il grande accusatore di Romano. Di lui ha parlato a proposito di un intervento sui consiglieri comunali di Villabate aderenti al gruppo del Cdu, per osteggiare l’approvazione del piano commerciale che avrebbe spianato la strada al progetto della Asset Development, sposato dalla locale famiglia mafiosa. Dichiarazioni verosimili su cui, però, non ci sono precisi riscontri di un intervento diretto di Romano. Campanella ha anche parlato dell’impegno della famiglia di Villabate per sostenere l’elezione di Romano alla Camera dei deputati, riscontrato, secondo il gip, dalle intercettazione di casa Guttadauro, quando Miceli ha fatto presente di aver parlato con Cuffaro e Romano di un “discorso esteso anche su Bagheria” annunciando “la disponibilità a tutto l’impegno possibile”.
Per Campanella, Romano era “un candidato che direttamente avrebbe potuto fare i nostri interessi”. La garanzia di questo occhio di riguardo nei confronti delle esigenze della famiglia mafiosa di Villabate era rappresentato da Antonino Mandalà che, ogni volta, per contattare Romano, si sarebbe servito dell’avvocato Carmelo Cordaro. Campanella racconta come, una volta, lui stesso aveva accompagnato Mandalà dal legale. C’erano lamentele da riportare a Romano. Ma il pentito non ricorda il motivo preciso e sull’argomento non si è più tornati. Il gip, infatti, sottolinea come la vicenda non sia stata adeguatamente approfondita.
Campanella, nelle sue dichiarazioni, va anche oltre, arrivando a ipotizzare che Romano fosse “uomo direttamente affiliato alla famiglia di Belmonte Mezzagno”. Circostanza appresa dal diretto interessato. Ed è un episodio chiave. Siamo a Roma, nel periodo in cui si andavano configurando le candidature per le elezioni politiche del 2001. A pranzo, in un ristorante a Campo de’ fiori, si siedono attorno al tavolo: Campanella e sua moglie, Cuffaro, Romano, il magistrato Giulio Sarno e Franco Bruno. Quest’ultimo, segretario particolare dell’allora sottosegretario alla Giustizia, vecchio amico dei presenti, si sarebbe rivolto a Romano e in tono scherzoso avrebbe affermato che, anche se si fosse candidato nel collegio di Villabate, non avrebbe ottenuto il voto di Campanella. Ma la frase avrebbe, invece, provocato la reazione risentita dell’attuale ministro che, in siciliano e di fronte a tutti presenti, avrebbe detto che Campanella lo avrebbe votato, perché loro erano della “stessa famiglia”, aggiungendo letteralmente: “Scinni a Villabate e t’informi”. Tutti – tranne Sarno che non era siciliano – sarebbero rimasti attoniti di fronte all’uscita di Romano. Un racconto confermato, per filo e per segno, da Franco Bruno, la cui attendibilità è stata certificata anche dalla Cassazione. Il contesto e il modo in cui Romano ha parlato, ha lasciato pochi dubbi in Bruno, erano “discorsi da non farsi in assoluto, meno che mai in pubblico”. “Cuffaro trasalì” ha aggiunto Bruno raccontando come, dopo quella frase, il pranzo si è interrotto e quando Romano è andato per pagare il conto, sarebbe stato apostrofato da lui stesso: “Tu non hai i soldi per pagare il conto a me al dottor Sarno”. Per la difesa il riferimento della frase sarebbe stato alla famiglia “politica”, ma la spiegazione non appare credibile al gip che, al contrario, si chiede il motivo per cui nei confronti di Romano, gli uffici requirenti non abbiano portato avanti un’ipotesi di associazione mafiosa piuttosto che di concorso esterno.
Le conclusione del gip
Francesco Saverio Romano, “per almeno due decenni, ha mantenuto una condotta di consapevole apertura e disponibilità nei riguardi di esponenti, anche di assoluto rilievo, dell’organizzazione criminosa Cosa nostra” scrive nelle sue conclusioni il gip Giuliano Castiglia. In particolare per quanto riguarda il suo ruolo politico, avrebbe risposto “allo storico ed essenziale interesse” della mafia “di infiltrare propri uomini o rappresentanti nel contesto politico-amministrativo” producendo “immediati ed evidenti effetti di rafforzamento della consorteria mafiosa”. Per il gip non ci si trova sulla soglia della “contiguità”, “gli elementi acquisiti – scrive – rappresentano, una perdurante, consapevole e interessata apertura verso componenti di primaria importanza dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra”. “La prognosi – conclude il gip – è di idoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio rispetto all’ipotizzato reato di concorso in associazione di tipo mafioso”.

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17 Luglio 2012, 12:07

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