18 Agosto 2018, 19:32
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Mentre camminavamo con sollecitudine, per non giungere in ritardo, stringevo forte, con la mia, la mano di mia madre. Sui passi non andavamo d’accordo: ogni passo suo corrispondeva a due dei miei; quello che per lei era un’andatura sostenuta, per me era una vera e propria corsa. Era una mattina autunnale, in una Palermo anni ’60: mia madre, come tutte le madri, accompagnava i suoi bimbi, come tutti i bimbi, all’Ufficio d’Igiene. E già quel nome era per me angosciante: il solo suono mi evocava torture medievali e mi provocava un poderoso mal di pancia.
“E’ per le vaccinazioni, è obbligatorio. Dai, muoviti” Di buono c’era il giorno di vacanza, ma a che prezzo Dio solo lo sa. “Obbligatorio”, parola odiosa. La mia vita, in quell’epoca acerba, era totalmente immersa negli obblighi. C’era l’obbligo di lavare le mani prima di mangiare, e i denti dopo; c’era l’obbligo di salutare e rispettare i grandi; gli obblighi infiniti di chiedere ‘per favore’, ‘scusa’, e di salutare per primi. Poi l’obbligo per eccellenza: la mattina la scuola, – “dell’obbligo”, appunto – e i compiti nel pomeriggio. Vittima di altrui volontà, mi sentivo prigioniero di mille condizionamenti; il mio era uno stato di resistenza passiva, sofferta ma civile. L’obbligo era solo una coercizione, senza alcun vantaggio, senza premi. Anche vaccinarsi, conseguenzialmente, era d’obbligo.
L’Ufficio d’Igiene, manco a dirlo, era un palazzaccio, ai miei occhi: il bianco prevaleva su tutto e sotto la forte luminosità del sole autunnale abbacinava ancora di più. Bianco anche l’interno, che già vedevo a malapena, per i lacrimoni che inondavano le ciglia, tracimando sulle guance. Una terribile figura mi accolse con un sorriso disarmante: era Maria, l’infermiera, braccia forti, un po’ robusta, capelli raccolti sotto un cappellino bianco anch’esso. La sua gentilezza strideva con il suo tremendo mandato di torturatrice con siringa. Accanto a lei, in una scrivania metallica poco distante, un tipo un po’ anziano, di certo il medico, radi capelli bianchi e grossi occhiali sulla punta del naso.
Il Dottor non-so-come-si-chiama-forse-Hitler mi rivolse un pallido sorriso anche lui; quindi mi spiegò di anticorpi e di cellule “con la memoria”, che mi avrebbero accompagnato per tutta la vita, a mia difesa; lo ascoltai scettico. Poi, dopo qualche scritta e qualche firma di mia madre distribuita su pochi fogli, si dette seguito all’esecuzione sommaria. “Coraggio, solo una punturina”, diceva la terribile Maria. Quindi il buio; credo di aver rimosso dal mio contenitore di ricordi l’immagine- video del nefasto evento iniettivo e le teatrali, forse scomposte, mie azioni di accompagnamento. Alla fine, però, una piacevole sorpresa mi aspettava: da un cofanetto coloratissimo, di latta, Maria tirò fuori un soldatino, che mi regalò con la sua grande mano destra, mentre con la sinistra mi accarezzava la testa e cercava di asciugarmi le lacrime, fazzoletto in mano. “Questo è per te; oggi anche tu sei stato come lui, un soldatino”.
E già, mentre strappavo dalle sue mani il piccolo dono, per cacciarlo in saccoccia, in un misto di rabbia e di pudore, per via delle lacrime, speravo di cuore di non vederla mai più, ma origliavo inerte le poche frasi che mia madre, in quel commiato finale, scambiava con il Dottore, tra le quali distinguevo a malapena le parole “prossimo appuntamento” e “richiamo”, che mi gettarono in un’ulteriore definitiva prostrazione. Ma ero un soldatino in cerca di comprendere la mia guerra; avevo dei doveri e degli “obblighi” che non avevo cercato né voluto io, ma che dovevo rispettare.
Molti anni dopo, ero all’Università quando mi accorsi che quella guerra, cui avevo aderito tanti anni prima, da bambino, volgeva al suo epilogo. Seguendo le lezioni di Microbiologia il Prof un giorno venne tronfio, annunciandoci che gli ultimi sei casi al mondo di vaiolo erano stati isolati in Somalia e che, al decesso di quelle ultime vittime sacrificali, pace all’anima loro, avremmo potuto considerare eradicato totalmente il virus di quella tremenda malattia, pace all’anima sua. Le domande su poliomielite e vaiolo continuavano ancora ad esserci, agli esami, ma passavano sempre più di consegna, dagli appelli di Microbiologia e di Clinica Pediatrica, materie fondamentali, a quelli di Storia della Medicina, materia complementare.
Era il passaggio di un’epoca, un girare pagina sulla via della buona salute pubblica. Mi resi conto che l’”obbligo” di tanti anni prima aveva avuto origine dall’autorevolezza di alcuni uomini di scienza; quell’atto di fede era stato ben riposto. Ma la vera fine della guerra venne da me celebrata ancora molti anni dopo. Era d’estate e in una spiaggia poco distante da Palermo, dove trascorrevo in famiglia un breve periodo di ferie, i miei bambini familiarizzarono con altri loro simili. Come spesso succede, si solidarizzò anche tra genitori, ma il padre di due amichetti da castelli di sabbia dei miei figli – seppi che si chiamava Rosario – non lo vedevo. La madre spiegò che suo marito non amava molto il sole di agosto e che preferiva stare a casa durante le ore più calde.
Le nostre abitazioni erano vicine, eppure non potei vedere per molto tempo che faccia avesse il mio vicino, che per molti giorni rimase avvolto nell’incognito. Poi, una mattina di fine agosto, finalmente il mistero trovò il suo disvelamento. Verso le sette del mattino, all’incirca, la spiaggia era quasi completamente vuota. Io ero reduce da una notte infastidita da un gran caldo ed una conseguente levataccia all’alba. Avviandomi adagio verso la spiaggia vidi qualcosa che mi incuriosì. A cavalcioni su un trabiccolo motorizzato, un tipo si stava avviando, proprio partendo dalla casa dei miei vicini, verso il mare; giunto vicino alla battigia si disarcionò con qualche difficoltà da quel curioso veicolo e si drizzò con lo sguardo rivolto al mare.
Fu lì che mi resi conto del suo dramma: la gamba destra era magrissima, polpacci e coscia ridotti ad un fuso unico; l’andatura era stentata, perché l’arto veniva in parte trascinato e in parte sollevato a fatica, nel completamento del passo. Pareva danzasse. Credeva, confidava fortemente, di non essere visto da nessuno; quindi, pochi passi verso il mare, e via, in acqua. Alcuni minuti dopo, al culmine di un godimento balneare esclusivo, usciva, con consueta fatica; qualche minuto ad asciugarsi, poi inforcava il suo trabiccolo motorizzato, quindi si allontanava. Rosario faceva così tutte le mattine d’estate, per concedersi il piacere di un bagno a mare sottraendosi pudicamente allo sguardo invadente del mondo intero.
Gli esiti della poliomielite li conosciamo in pochi; alcuni di noi solo per averli visti, fortunatamente, da estranei immunizzati, addosso a poche sfortunate vittime del contagio, come Rosario, in anni difficili nei quali la diffusione del morbo era una triste realtà, specie tra i meno abbienti. Rosario era il reduce mutilato di quel fronte bellico, perché non era stato vaccinato. Negli anni ’60 e in quelli seguenti l’epopea della vaccinazione obbligatoria contro polio, vaiolo, difterite ed altre disgrazie si faceva strada nel silenzio delle scuole, dove veniva richiesta, e degli Uffici d’Igiene dove veniva praticata.
E c’era un vero esercito che combatteva in silenzio, scarsamente consapevole della grandiosità dell’opera che si stava realizzando; un esercito che combatteva e che vinceva una guerra senza frontiere e senza schiamazzi, senza proclami e senza medaglie. Vinta quella guerra, viene adesso voglia di abbracciarci tutti, protagonisti attivi e quasi inconsapevoli delle nostre trincee; dovremmo abbracciarci noi, bambini anni ’60, che ricordiamo grembiuli, fiocchi e formaggini; dovremmo abbracciarci con Maria, dolcissima distributrice di soldatini e di salute, con le sue minuscole spade a forma di siringa; e anche con i mille dottor Non-so-come-si-chiama-forse-Hitler, silenziosi Ufficiali ai posti di comando.
Dovremmo abbracciarci con Rosario e con i tanti reduci combattenti, mutilati di guerra, sfortunati nel non aver conosciuto – chissà per quale negligenza, per quale dimenticanza – gli Uffici d’Igiene. Siamo superstiti, salvati dalla nostre cellule “con la memoria”.
Eppure corriamo il rischio di imbatterci in guerre successive: le malattie infettive, come gli esami, non finiscono mai. Corriamo rischi incredibili perché pur essendo stati un esercito vincente, silenzioso ed efficace, qualcuno vuol farci credere, adesso, che per vincere le guerre in corso, che si chiamano morbillo, varicella, epatite, basta smembrare l’esercito, liquidare le truppe e licenziare ufficiali e sottufficiali, scorporandoli da qualunque vincolo, liberandoli da qualunque obbligo. L’obbligo – qualunque obbligo – prevede una sua origine nell’autorevolezza di un’Istituzione, di un’Autorità competente, seriamente accreditata e benevola; non può essere una cieca sottomissione nei confronti di chicchessia.
Se così non è, è solo una stupidaggine. Il dovere compiuto da cellule “con la memoria” non si lega, oggi, al nostro, di dovere, che è quello di continuare a vincere guerre con un esercito efficace. Sembrerebbe che quella benigna memoria cellulare abbia sbattuto la faccia contro la nostra, paradossale, dissennata smemoratezza. Ma da buon soldato, che non dimentica, spero in un avvenire migliore, combattendo ancora la buona battaglia.
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18 Agosto 2018, 19:32