27 Novembre 2018, 06:04
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PALERMO- Se sei un figlio di Corleone, rischi la condanna preventiva, la gogna perpetua, il fine pena mai.
Infatti, se annuncerai, con orgoglio, altrove la tua appartenenza, ti scruteranno almeno perplessi. E nella mente degli interlocutori cominceranno a scorrere le note immagini di repertorio. Il ficodindia senza redenzione con le sue corone di spine. Riina e Provenzano incardinati nell’odio che li fece malamente vivere e disperatamente morire, dopo avere scavato camposanti di lacrime. La voce di Enzo Biagi in un antico reportage che pareva una cronaca di guerra sotto le bombe: “Stiamo entrando a Corleone…”. E ne sarai, malgrado tutto, come partecipe.
Se sei il figlio di una vittima di mafia, non dimenticherai. Ogni passo sarà il testimone di un lutto che si rinnova, combattendo con la speranza, fiato dopo fiato, palmo a palmo. E se hai scelto una nobile, onesta e concreta antimafia per abbracciare il coraggio, dovrai misurarti con la gratuita rassegnazione degli altri. Tanto, cosa gli costa?
Se sei figlio di un carnefice mafioso, invece, se allunghi la discendenza diretta o acquisita di chi il pianto lo impose – nella sua sostanza di ominicchio vile – servirà a poco, agli occhi di tanti, una vita irreprensibile e onesta in calce al distacco dall’orrore. Magari, mostrerai gli strumenti di un lavoro faticoso, di un’esperienza pulita che è già dissociazione. Il risultato sarà, verosimilmente, gogna, condanna. Appunto. Fine pena mai. Per cui, se sei un corleonese, che tu sia la gazzella o il leone di un celebre proverbio, l’importante è che cominci a correre, ogni mattina, per costruire, in tanto piovigginare, una ridotta di felicità.
C’è stata la recente polemica del candidato sindaco che si lascia immortalare col nipote acquisito del boss a smuovere ulteriormente acque già mosse. Un gesto, forse volenteroso, sicuramente incauto, fosse soltanto per le contrapposte strumentalizzazioni che ne sono scaturite. Eppure, il problema rimane drammatico e intero, ora che la polvere di un dibattito da urne aperte si è dissolta con l’interesse elettorale. Corleone e gli ‘onesti parenti di mafia’. Quanto conta un involontario legame ‘sbagliato’? Basta un cognome per renderti simile a un appestato, senza colpa e senza riscatto? Oppure c’è una salvezza possibile? E chi interrogare, a riguardo, se non coloro che vivono in diretta le asperità di quella terra?
“La questione esiste – dice Pippo Cipriani che, da sindaco, in anni trascorsi, fu il promotore della Primavera corleonese –. I parenti dei mafiosi non sono emarginati, ma è innegabile che si portino dietro un marchio che può condizionare soprattutto le nuove generazioni. Bisogna compiere uno sforzo comune che preveda da una parte la mano tesa e dall’altra la disponibilità a venirne fuori. Quel mondo deve manifestare un segnale di cambiamento che affermi che non si ha nulla da spartire con un certo contesto. Per esempio, sarebbe bello se, nel momento in cui si commemorano i caduti per mano di Cosa nostra, piangesse anche chi ha un nome ‘pericoloso’. Ci vuole la collaborazione delle istituzioni. Non si può fare finta di niente, ma non si può abbandonare nessuno al proprio destino”.
Dino Paternostro, responsabile Legalità della Camera del Lavoro di Palermo, è memoria storica di lotte. Le sue parole ricalcano, al netto delle sfumature, quelle di Cipriani: “Il problema – dice – deve essere affrontato con molta serietà, rifuggendo dalla tentazione del colpo di teatro o del vantaggio che uno potrebbe trarre. Secondo me esiste una premessa fondamentale. Quei familiari devono dissociarsi pubblicamente dalla subcultura mafiosa. Non gli si chiede certo di offendere i congiunti, ma di chiarire che non vogliono avere niente a che fare con la mafia. Poi c’è il sostegno necessario. Se questo non si manifesta, tutto diventa complicato. Io comunque ho visto molte cose cambiate. Oggi ci si vergogna apertamente dei boss e delle loro violenze. Non è andata sempre così a Corleone”.
Marilena Bagarella è una donna di impegno e passione. Al telefono si avverte il sorriso di un distacco saggio che rifugge l’indifferenza: “Il mio nome suscita la domanda che si sta già ponendo anche lei… Sì, c’è una parentela lontana. Io sono la responsabile didattica del ‘Laboratorio della legalità’, collaboro con ‘Addiopizzo Travel’. La mia associazione, ‘Germoglio’, è nata con la Primavera ai tempi di Cipriani. Sono una formatrice in ambito psicopedagogico, mi occupo dell’educazione dei giovani alla cittadinanza”.
Marilena è una seminatrice infaticabile di orizzonti che mettono insieme le tensioni e i pensieri positivi.
“Qui siamo andati avanti – racconta -. Si sono realizzati progressi rispetto alla reticenza o alla resistenza nell’esporsi. All’inizio, con il laboratorio della legalità, quando si presentavano le scolaresche, c’erano bambini che restavano a casa. Ora non più. E mi è capitato di parlare al figlio di qualche famiglia, diciamo particolare, che ascoltava, attento, con il figlio del carabiniere. Svolgo il mio lavoro per strada, con gli aneddoti, le esperienze… E’ un’attività terapeutica, un esercizio di libertà che aiuta a elaborare il dolore. Qui tutti hanno sofferto. Se scopri che un ragazzo con un passato difficile si impegna, sei immensamente felice. Il mio cognome che poteva essere motivo di imbarazzo ora è il mio cavallo di battaglia. Non è il cognome, per me, che fa la differenza, ma come ci comportiamo ogni giorno…”.
E un raggio di sole spunta all’ombra di quel dannato ficodindia.
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