13 Febbraio 2013, 11:09
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PALERMO – Mai accontentarsi delle apparenze, consiglierebbe qualsiasi vecchio saggio. E delle proprie tesi. O di ciò che appare verosimile. Soprattutto quando si parla di mafia e antimafia. Magari, accantonando ciò che pensiamo non sia utile alla causa. Perché così si rischia di sbattere la testa. Anzi, di sbatterla contro due teste. O due crani.
Com’è successo a Corleone quando, lo scorso novembre, aperto il loculo del sindaco eroe assassinato nel 1915, Bernardino Verro, per spostarne i resti in una adeguata sepoltura accanto a quella di Placido Rizzotto, anziché bloccare la macchina delle cerimonie ufficiali in attesa di capire cosa diavolo fosse accaduto in quel cimitero, s’è lasciato andare per il suo verso il cerimoniale del rito in pompa magna, con tanto di corteo interno, bimbi festanti, sindaco con fascia tricolore, commozione, preghiere e impegni antimafia. Tutto per quattro ossa che forse appartengono a un mafioso, Calogero Bagarella, come forse dirà l’esame del Dna. E lo dirà solo perché un ex consigliere comunale dalla memoria più lunga di tanti altri ha tirato fuori un articolo scritto proprio da uno degli organizzatori nel 2007, appena cinque anni prima della cerimonia, in cui si diceva che i resti di Verro erano stati trasferiti negli anni Cinquanta a Palermo dove effettivamente riposano.
Una svista. Una beffa. In attesa dell’esame che richiama un’altra colossale malafiura in questo caso direttamente attribuita alla magistratura quando, due anni fa, scoperchiò la tomba di Salvatore Giuliano dando credito alla voce di una sostituzione di cadavere.
Non che non si dovesse indagare. Ma se la circostanza impone di fare solo un esame ispettivo su quattro ossa, prelevare dei campioni e mandarli in laboratorio, si presume che siano sufficienti un necroforo, un medico legale, un assistente, un sostituto procuratore, un paio di investigatori, quattro carabinieri. Ma quel giorno accadde il finimondo. Arrivarono da Palermo al cimitero di Montelepre il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, quattro sostituti, tutti con un paio di auto blindate a testa, seguiti e preceduti da un centinaio di militari o poliziotti distratti da ben altro, a tutto vantaggio (sic!) del sistema mediatico, di tv, cameraman, fotoreporter, tutti appositamente convocati con tanto di invito stampa. Ovviamente quel giorno senza notizia, senza rischio alcuno, nonostante i cordoni di carabinieri e poliziotti schierati per tenere a bada i cronisti richiamati dagli stessi pifferai poi pronti a fingersi infastiditi dalla presenza dei riflettori.
Brutta storia conclusa con incredibile ritardo. Con un esame i cui risultati venivano rinviati di mese in mese, di settimana in settimana. Infine, con la conferma che quelle erano le ossa di Giuliano, che non c’era stata sostituzione alcuna e che quel circo mediatico (e giudiziario?) era stato tempo e denaro perso.
Ecco cosa si rischia quando ci si innamora delle tesi e si utilizzano le stesse per una sovraesposizione di se stessi.
Temo sia accaduto qualcosa di simile a Corleone. La beffa di un funerale dell’antimafia ai resti di un mafioso trovati in una bara con due teschi è il macabro epilogo di una commedia degli equivoci che dovrebbe fare riflettere anche i volenterosi protagonisti di questo incidente maturato nella città di Riina. Proprio nella Corleone dove dal ’93 è tornata a vivere la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella, la maestrina latitante col marito per quarant’anni, forse una delle poche persone che sapevano dove piangere e pregare per suo fratello Calogero, ucciso nel ’69 a Palermo, nello scontro a fuoco della strage di via Lazio, e occultato in loculo segreto.
Adesso pare che il loculo scelto sia stato proprio quello di Verro, il sindaco antimafia assassinato nel 1915, un eroe popolare, difensore dei contadini. Loculo aperto con tutta probabilità quella notte nel ’69 dallo stesso Riina e dall’altro cognato che avrebbe poi seminato tanti lutti, Leoluca Bagarella, entrambi di ritorno dal raid palermitano con un morto nel bagagliaio. Almeno questo comincia a sospettare il procuratore di Termini Imerese, Alfredo Morvillo, competente per territorio, chiamato a svelare il mistero spiattellato senza imbarazzi dalla giovane e determinata sindaco di Corleone, Lea Savona.
Sindaco saggio quanto basta per allarmarsi davanti alla beffa maturata nei mesi successivi al funerale di Stato celebrato alla presenza di Giorgio Napolitano per l’altro eroe dell’epopea antimafia, Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso e gettato nella gola di Roccabusambra, le sue ossa recuperate solo qualche anno fa, infine ricomposte per la cerimonia conclusa con la dovuta sepoltura in una sobria cappella al cimitero di Corleone. Come avvenne lo scorso 24 maggio, il giorno dopo la celebrazione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta uccisi a Capaci. C’era Sandra Camusso, il segretario nazionale della Cgil, quel giorno. E c’erano gli impegnati protagonisti della Cgil di Corleone, col segretario Dino Paternostro. Loro cominciarono a pensare che accanto a Rizzotto avrebbe dovuto trovare adeguato sepolcro l’altro simbolo dell’antimafia, appunto Verro. Idea subito apprezzata da ogni autorità interpellata sulla materia, tutti convinti che nel modesto e malandato loculo numero 47 ci fossero davvero i resti di Verro. Tutti ignari, dal sindaco ai funzionari di polizia, dai carabinieri a tanti dirigenti della stessa Cgil, dai giovani delle cooperative antimafia a politici locali sempre sul fronte giusto, si preparò il nuovo sepolcro attiguo a quello di Rizzotto per inaugurarlo il 3 novembre, l’anniversario del delitto. E funerale fu. In pompa magna. Con gran corteo interno, dal loculo 47 alla cappella.
Ma tutto si poteva immaginare tranne che preghiere, discorsi, impegni e bandiere sventolassero per rendere omaggio a un cadavere con due teste. Adesso l’ironia è facile. Ed è meglio evitarla. Ma come è stato possibile che, poco prima di questo solenne funerale, scoperta la presenza del secondo cranio, con un paio di colpi alla nuca bene in evidenza, a nessuno sia venuto un minimo dubbio? No, il dubbio è venuto, ricorda il sindaco. E me l’ha detto pure il segretario Paternostro, giornalista e storico di primo piano per le vicende di Corleone, memoria storica di un paese dove ha rischiato in prima persona, spesso minacciato. Assicura di aver chiesto lumi all’ufficiale sanitario che avrebbe a sua volta ricordato la consuetudine di seppellire anche due persone se parenti nella stessa bara.
Affermazione che, da sola, avrebbe suggerito cautela. Ma cautela non ci fu, anche perché era tutto organizzato, cerimonia, fiori, corteo, discorsi. E, ricomposte ossa e teste in un’unica urna, via secondo programma. Ovviamente senza nulla dire a giornali e Tv, studenti, militanti e cittadini di quei due crani. E oggi potremmo ancora pregare o soffermarci con laico rispetto davanti alla nuova tomba di Verro se quell’ex consigliere comunale dalla memoria lunga, a manifestazioni e cerimonie concluse, non si fosse presentato a Lea Savona sbandierando un articolo in cui si rivela che i resti di Verro erano stati trasferiti da mezzo secolo a Palermo, per scelta dell’unica figlia di quel sindaco, Giuseppina Pace Umana, un anno appena il giorno dell’agguato, morta a quasi ottanta dopo una vita passata nel partito socialista. E infatti la tomba di Verro sta nel cimitero dei Rotoli a Palermo, come hanno poi confermato i poliziotti delegati dal procuratore Morvillo sulla scia della denuncia di Lea Savona. E che poteva fare, povera sindaco, davanti a quel ritaglio di giornale che nel 2007, appena cinque anni prima della “scoperta”, ricordava la rivelazione di Giuseppina Pace Umana? Un articolo scritto da Dino Paternostro. Sorpresa. Sarà stata una svista, come ho scritto sul Corriere della Sera, subito aggredito dallo stesso Paternostro con un sms in cui mi invitava a cancellare il suo numero di cellulare, non essendomi dimostrato “amico” né suo né della Cgil (doppio sic!). Stordito da questa reazione, invito Paternostro a riflettere. Come certamente faranno i suoi amici, mentre il procuratore Morvillo procederà forse alla ricerca del Dna di quei resti. Per capire se davvero vanno attribuiti a un Bagarella. E chissà magari si scoprirà che non sono nemmeno del boss ucciso. Ma un dato certo, senza dna, c’era già. E fu ignorato. Sventuratamente. Senza laico distacco. Lo stesso che manca a volte non solo a Corleone o a Montelepre.
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13 Febbraio 2013, 11:09