11 Agosto 2011, 15:55
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Ci sono vite intense come dichiarazioni d’amore, e quella di Ludovico Corrao per la Sicilia era dolce e rabbiosa insieme. Sin dalla rivoluzione politica del Milazzismo, che era di politica antica – sanguigna, autentica, senza riguardi eccessivi per le forme -, e poi la legge, e il principio che non si dovesse chinare il capo dinanzi alle sopraffazioni mafiose: da avvocato difese una donna stuprata secondo il bestiale costume della fuitina, e ottenne la condanna del malfattore; infine, si mise alla testa della gente di Gibellina, lui che era di Alcamo, e da Sindaco si batté per una città nuova, dopo il terremoto che aveva posto fine al feudalesimo, nel 1968.
Gibellina fu utopia concreta e condivisa dalla gente, tanto che alla notizia della sua morte, i vecchi e i giovani hanno detto: “U sinnacu”. E sono davvero pochi, forse nessuno oramai, che quel titolo possono orgogliosamente cucirlo sulle spalle come alamari. Gibellina era miseria e rassegnazione, e ogni mattina, arroccata sul fianco di una collina scoscesa, si risvegliò per duemila anni alla luce della speranza. Fino al terremoto. Morirono i vivi che non avevano creduto alle prime scosse e i morti uscirono dalla bare scoperchiate al cimitero. Gibellina era città di donne e bambini, dal lunedì al sabato, fin quando gli uomini tornavano con le greggi, ed era festa, e pranzo e messa domenicale.
Ludovico Corrao condivise la disperazione e la speranza dei suoi gibellinesi: nella tendopoli così come nelle città d’Europa che rispondevano all’appello suo e di artisti e intellettuali – Buttitta, Guttuso, Sciascia – per salvare Gibellina. Pochi soldi, dal governo, e tutti per le case e per le strade, e le donazioni per l’Arte: scultori e urbanisti donarono la loro opera, e la tradussero in statue, installazioni e macchine sceniche, insieme a quegli artigiani che vollero reinventare e riscoprire le loro arti. Poi la pittura, e il teatro, e la musica.
Corrao è l’ultimo che in Sicilia abbia concepito una città, l’ultimo artefice che dal nulla abbia immaginato una comunità. E ha raccolto, come è comprensibile, lodi e critiche. Quando è morto, e ho letto la notizia della sua morte, ho pensato che non potesse esser vero. Ucciso, e a quel modo. Come un agnello a Pasqua. E ho pensato che a Gibellina, in terra ebraica di Salemi Shalom, quell’olocausto avesse colpito la Sicilia nella sua antica innocenza. Ho pensato di aver perso un’altra voce, e un’altra parte della mia memoria. Ho ripensato ai tanti altri morti del tempo appena passato. Ignazio Buttitta, Danilo Dolci, Renato Guttuso, Leonardo Sciascia. Ho rivisto il dipinto di Guttuso, “La Notte di Gibellina”.
Ho risentito la ninna nanna di Rosa Balistreri. “Oh figlia mia, lu santu passau, di la bedda mi nni spiau, e iu ci dissi la bedda durmia, e dormi figghia di l’arma mia”. E poi, alla fine, a Gibellina vecchia, sotto il Cretto, dove riposa la storia di tanti, “ora veni lu patri tò e ti porta la siminzina, la rosa marina e lu basilicò”.
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11 Agosto 2011, 15:55