23 Giugno 2014, 20:12
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PALERMO – Estorsioni, attentati e pianificazione di omicidi. Affermare la propria presenza nel territorio e la leadership ai vertici delle cosche di San Lorenzo, voleva dire essere pronti a tutto. Anche ad “eliminare” chi metteva a repentaglio l’ascesa al vertice della Cupola. Le intercettazioni che hanno portato alla maxi operazione “Apocalisse” hanno fatto emergere come fino a due anni fa la struttura della consorteria di Resuttana fosse piuttosto instabile e priva di una chiara e definita ripartizione dei ruoli.
Caso emblematico, i rapporti emersi tra due degli arrestati, Gioacchino Intravaia e Giuseppe Fricano, che in una prima fase gestivano insieme il mandamento di Resuttana. Una leadership a metà, destinata a non durare e sfociata nel progetto di un delitto da parte di Fricano, deciso a dovere fare fuori Intravaia. Si trattò del risultato della coesistenza di due strategie diverse, che ben presto arrivarono ad uno scontro dove non erano ammessi compromessi.
Una frattura insanabile, culminata addirittura in uno scontro fisico ripreso dalle telecamere e dalle microspie che hanno svelato il nuovo organigramma di Cosa nostra. A marzo 2012 iniziò così la “guerra” di Gioacchino Intravaia, che tentò di imporre le sue logiche rispetto a quelle di Fricano. Un atteggiamento che lo condusse a costituire, anche se momentaneamente, uno schieramento mafioso a sé stante. Ad avere la meglio fu però Fricano, grazie anche alla parentela con il capo storico del mandamento di Porta Nuova, Pippo Calò. Fricano poteva inoltre contare sull’appoggio di uno dei boss più “influenti” all’interno di Cosa nostra palermitana: Alessandro D’Ambrogio, finito in cella nel blitz “Alexander”.
E nel corso della scalata verso il vertice del clan, pianificò due omicidi. Quello di Intravaia, suo diretto concorrente, e quello del suo braccio destro, Michele Pillitteri, detto il “macellaio”. Quest’ultimo sarebbe stato a capo di un gruppo di affiliati che imponeva in modo capillare le estorsioni ai titolari di esercizi commerciali presenti sul territorio. Entrambi i delitti furono sventati dagli investigatori che riuscirono a scongiurare le due esecuzioni.
Così come quello dell’ex collaboratore di giustizia Raimondo Gagliano, condannato a morte, secondo gli investigatori, da Sandro Diele e per mano di Onofrio Terracchio, detto “Fabio”, altro arrestato nel maxi blitz interforze. Un capitolo a parte merita infatti il nuovo mandamento Pallavicino-Zen, elevata a famiglia mafiosa per la prima volta. Al suo vertice ci sarebbe stato proprio Diele e tra le sue fila avrebbe annoverato emergenti di Cosa nostra spietati, tra cui Terracchio.
Gagliano, dopo una lunga assenza da Palermo era tornato ad abitare in città, nell’abitazione della madre allo Zen. Un ritorno che Diele avrebbe vissuto come un’umiliazione: proprio dopo le rivelazioni dell’ex pentito aveva subito una condanna. E partirono le intimidazioni ai danni di Gagliano. Inizialmente, si trattò soltanto di avvertimenti: prima il boss gli fece trovare davanti casa una testa di capretto con dei proiettili conficcati negli occhi, poi passò alle maniere forti, pianificando il suo omicidio.
Terracchio, secondo gli investigatori, sarebbe entrato in azione insieme a Paolo Lo Iacono a bordo di uno scooter rubato. Per trovarlo si sarebbero rivolti ad un ricettatore di veicoli rubati, Serafino Maranzano. E nel cuore della notte, sotto le direttive di Diele iniziarono a sparare contro il portone di Gagliano, al piano terra di un palazzo in via D’Alvise, allo Zen. Il rischio era quello di una vera e propria strage, ma Gagliano riuscì a mettersi in salvo e fu anche allontanato per un lungo periodo dalle forze dell’ordine, ma poi rinunciò ufficialmente al programma di protezione.
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23 Giugno 2014, 20:12