04 Marzo 2024, 05:01
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CATANIA – Quattro anni fa, in questi giorni, si respirava un’aria pesante. Il Covid-19 era percepito come una minaccia, certo. Ma che nessuno avrebbe mai potuto immaginare cosa avrebbe poi scatenato.
Mesi ed anni tragici e complessi. Che hanno riscritto le abitudini delle vite di tutti. La necessità di affrontare sul campo la battaglia pandemica contro un nemico invisibile ma prorompente anche attraverso le nomine dei Commissari per l’emergenza Covid, figura distinta da quella di massimo dirigente dell’Asp.
A Catania, per quel ruolo, venne indicato Pino Liberti che oggi al Cannizzaro è Responsabile dell’Unità operativa che si occupa di infezioni ospedaliere.
Con lui abbiamo rivissuto quei giorni. Ma anche tutto ciò che ne è conseguito.
Dottor Liberti, ma cosa è rimasto di quell’organizzazione sanitaria che pareva ruotare, a torto o a ragione, esclusivamente attorno al Covid?
“Credo che dal punto di vista organizzativo non sia rimasto più nulla. Nel senso che è come se tutto quello che è accaduto, non sia mai accaduto: se non l’esperienza che è stata fatta e che potrebbe tornare utile fra cento anni. Ma di tutta la rete organizzativa messa in piedi, non è rimasto più nulla”.
Oggi servirebbe?
“Insieme a tanti altri colleghi, ci siamo battuti ed abbiamo realizzato la cosiddetta “medicina di prossimità”. Noi abbiamo aperto i grandi hub vaccinali ma abbiamo anche e sopratutto fatto screening dappertutto. Siamo andati nelle scuole e in tutti i posti più impervi. Una medicina che non aspettava il cittadino ma che andava dal cittadino a fare prevenzione. Una macchina messa sù con fatica ma che funzionava. Una prima bozza di “medicina di prossimità” che nella mente della politica di allora, del presidente Musumeci e dell’assessore Razza, sarebbe servita in futuro a realizzare quei presidi a cui i cittadini avrebbero potuto rivolgersi vicino casa e soddisfare così quelle necessità sanitarie, anche quotidiane”.
Lei conferma che non è rimasto più nulla?
“Una volta finita l’esperienza del Covid, i ragazzi che lavoravano sono stati in parte stabilizzati, in parte sono in attesa, un’altra parte ancora fa altro ed i commissari sono tornati a fare quello che facevano prima. Ed il rimpianto per aver realizzato una medicina che avrebbe dovuto proseguire oltre per sfruttare l’esperienza maturata con la pandemia, credo che sia sia davvero persa”.
Sente il dovere morale di rilanciare questo tema?
“Guardi, il covid è finito e tutto quello che è stato messo in piedi per fronteggiare il Covid, è giusto che non ci sia più. Ma l’esperienza di essersi raffrontati fino a raggiungere i cittadini, andava conservata. Non fosse altro che oggi la sanità territoriale manifesta diversi problemi: se un cittadino ha una problematica sanitaria, deve andare ancora dal suo medico curante, vedere se riesce a trovare uno specialista e così via discorrendo. Ecco, quella organizzazione che era stata messa in piedi per il covid avrebbe avvicinato la sanità ai cittadini”.
Se con la mente torniamo ai giorni più duri del Covid, qual è stato il momento più duro?
“Ce ne sono stati tanti di momenti critici. L’altalena della curva epidemiologica quando pareva andare a decrescere, puntualmente alzava la testa: ricordo che dopo il primo lockdown stavamo per uscirne, poi arrivò luglio e tornammo alla realtà dei fatti. Ma lo stesso accadde un anno dopo quando dismettemmo alcuni posti letto che ci erano stati messi a disposizione dai privati, improvvisamente la curva epidemiologica tornò a essere tumultuosa. Di nuovo avevamo da gestire un numero spropositato di contagi. Non fu affatto semplice. E quando ci siamo messi alla ricerca di nuovi posti letto negli ospedali, fu tutto complicato perché gli stessi direttori generali delle Asp avevano difficoltà a riconvertire i reparti”.
Ci furono casi al limite?
“Non so se lo ricorda ma l’Asp di Catania aveva riconvertito prima Caltagirone, poi Acireale, poi Biancavilla: personalmente avevo preso un impegno col sindaco di Biancavilla, Bonanno, dicendo che avrei restituito l’ospedale alle sue funzioni normali. Ma il fatto che la curva impennò nuovamente mi impedì di mantenere quella promessa ma il sindaco capì. Tutti i sindaci sono stati molto collaborativi”.
Oggi è di nuovo tutto “normale”?
“Se prima del Covid mi avessero chiesto: “Cosa ti serve per sistemare la sanità?”, io avrei risposto: “Mi servono medici, infermieri, operatori socio-sanitari”. Oggi so, invece, che sono importanti tante altre figure: psicologi, farmacisti e gli informatici. Il mondo della statistica e dell’informatica è entrata prepotentemente nella sanità dimostrando col Covid quanto siano importanti”.
Il Covid ha ha raccontato tante storie tragiche.
“Sì, ci sono state tante brutte storie. Preferisco, però, ricordare quelle di speranza con i ragazzi delle Usca che portavano la spesa a chi era costretto a rimanere isolato, che non era certo un compito prettamente medico. C’era un regime medico con l’isolamento che era davvero rigido, lo ricordiamo tutti. Ma questi ragazzi si erano chiesti come potevano essere assistite queste persone che rischiavano di restare isolati per sempre e senza aiuto. È stato uno sforzo umanitario che non può essere dimenticato”.
Ci sono anche medici e infermieri che non ce l’hanno fatta.
“Mi lasci ricordare due colleghi medici sul territorio che hanno pagato con la vita perché non hanno voluto abbandonare i propri pazienti. Qualcuno potrebbe pensare che sono stati superficiali: non è così, tanti colleghi sono rimasti sul campo a prescindere da tutto.
E due di loro, Pippo Vasta e Pino Galvagno non ce l’hanno fatta ed il mio pensiero va a loro e alle loro famiglie”.
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04 Marzo 2024, 05:01