03 Giugno 2017, 06:00
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Morale della favola: se fai la morale, rischi di finire moralizzato. È successo persino a Rosario Crocetta, il governatore siciliano giunto a Palazzo d’Orleans indossando i pennacchi dell’antimafia militante e seguito da una fanfara della legalità spesso fuori tempo. È toccato anche a lui, finito dentro una inchiesta che ancora promette di riservare sorprese, con una accusa che somiglia ai titoli di coda di un pessimo film: concorso in corruzione. È la fine di un moralizzatore.
Perché al di là di quanto verrà accertato dalle indagini e dal processo che ne seguirà, passano agli archivi della cronaca e degli atti giudiziari, opere e omissioni, debolezze e vanità. Un canovaccio di protagonisti e comparse, di figuranti e presunti potenti, che raccontano, ciascuno a suo modo, la storia di una Regione corrotta, nel senso più ampio del termine.
E in questa storia, c’è anche il personaggio che non ti aspetti. Le macchie che spuntano sugli abiti candidi dell’eroe. La denuncia che si rivolta contro, come l’inaspettato rinculo di uno sparo a salve. La difesa, imposta negli ultimi anni a malcapitati delinquenti o – molto più spesso – a ladri di polli e furbastri di provincia, diventare una necessità per allontanare da sé le ombre. Quando all’improvviso si spengono le musiche e si sgonfia il tendone del circo. Quando viene svelata l’illusione ottica in questo teatro nero della corruzione e si scopre che il trapezista, in realtà, aveva finora volteggiato a dieci centimetri dal pavimento e che la tigre altro non era che un docile gattino.
La nebbia dell’impostura, insomma, che svanisce. La facciata che crolla. Liberando finalmente lo scheletro a tanti noto: quella che in Sicilia in questi quattro anni e mezzo hanno chiamato “moralizzazione” altro non era che una trovata politica. Messa drammaticamente a nudo dall’inchiesta della Procura di Palermo che ha coinvolto anche il presidente Crocetta.
Del resto, senza andare a scomodare Nenni e i più puri che epurano i già puri, quello del moralista che affonda nella sua stessa retorica è un finale dal quale spesso non si scappa e che non subisce l’influenza di latitudini e palazzi, anagrafe e geografia.
Dall’estremo Nord al profondo Sud, la storia è sempre quella. Prendi Gianfranco Fini: era lui, o almeno doveva essere, la versione più composta, più ordinata di quel centrodestra che vestiva le paillettes alla “Drive in” del berlusconismo folgorante e le sbracate camicie verdi della Lega. Eccolo, il moralizzatore politico finire dentro le inchieste per la nota vicenda riguardante la casa di Montecarlo, l’uso dei fondi del suo partito, il rapporto con i Tulliani, suoi nuovi familiari.
Metti su casa, e va giù il partito. Insieme alla carriera politica. Perché ti sposti un po’, e scorgi un’altra tipologia di moralizzatore. Quello che urlava contro “Roma ladrona” è finito a processo con l’accusa di appropriazione indebita dei fondi della Lega Nord. Soldi che secondo l’accusa sarebbero serviti anche per ristrutturare la villa di Gemonio del Sanatùr. Per Umberto Bossi che nel frattempo si è fatto “scippare” il partito da Matteo Salvini, e il figlio Renzo, i pm milanesi già due mesi fa hanno chiesto una pesante condanna.
Altro che casa, dolce casa. Ne sa qualcosa anche un moralizzatore istituzionale come fu Antonio Di Pietro. La sua leadership in Italia dei valori (un nome che contiene in sé una ‘morale’) e lo stesso partito finirono per sgonfiarsi repentinamente di fronte alle inchieste che allungavano ombre sui fondi di Idv e sul patrimonio immobiliare dell’ex pm-star di Mani pulite che ha provato recentemente e senza successo a rilanciarsi in occasione delle ultime amministrative di Milano.
In quei giorni, nella Capitale d’Italia arrivavano invece i web-moralizzatori. Al grido di “Onestà, onestà” i grillini prendevano Roma. Ma nemmeno in quel caso l’autoproclamazione rendeva immuni da scivoloni e grane giudiziarie. La stessa Virginia Raggi è indagata, il suo (ex) braccio destro Raffaele Marra è finito ai domiciliari, un altro assessore (Paola Muraro) è finita nel registro degli indagati prima di dimettersi, mentre la Procura e l’Anticorruzione hanno bacchettato il primo cittadino su incarichi e promozioni.
La stessa Anac che in Sicilia non molto tempo fa puntava il dito contro un moralizzatore “di professione”. Antonio Ingroia era stato appena inviato dal presidente della Regione siciliana Rosario Crocetta a capo della Provincia di Trapani anche con l’obiettivo di “contribuire alle ricerche del latitante Matteo Messina Denaro”, ma ha finito per scomodare Raffaele Cantone che ha dovuto dire “alt” a quell’incarico: l’ex pm aveva superato il limite massimo di poltrone consentite dalla legge. Ma sulla toga che aspirò a fare il premier è pure piombata una inchiesta della Procura della Corte dei conti, ancora in corso, sulle assunzioni in un carrozzone regionale. Da inquisitore a “inquisito”. Che è come dire, in fondo, da moralizzatore a moralizzato.
E così, per non andare troppo lontano da Ingroia, il caso più clamoroso è tutto siciliano. Giusto il tempo di consentire a Massimo Giletti di chiudere la stagione dell’Arena, da dove l’ospite fisso e quasi mai contraddetto Rosario Crocetta recitava il domenicale Angelus dello scandalicchio vero o presunto, ed ecco che proprio il governatore della rivoluzione finiva dentro un’inchiesta ampia su un presunto caso di corruzione in Sicilia. Persino lui, il moralizzatore antimafia, il presidente – per usare sue parole – dal fiuto sbirresco, l’aglio per i vampiri della manciugghia (che sarebbe poi, fuor di vernacolo, lo spreco, lo sperpero).
L’inchiesta che sta estendendosi non solo alle diverse Procure siciliane, ma anche verso qualche tribunale “continentale”, a cominciare da quello di Perugia, sta cercando di far luce sulle relazioni tra la politica siciliana e alcuni imprenditori padroni degli aliscafi con i quali vengono assicurati i collegamenti tra la Sicilia e le Isole minori. Sono già finiti ai domiciliari l’attivo consigliere regionale e attuale candidato a sindaco di Trapani Girolamo Fazio, il potente armatore Ettore Morace e Giuseppe Montalto uno dei collaboratori più stretti dell’assessore regionale alle Infrastrutture Giovanni Pistorio. Come detto, tra gli indagati altri nomi “eccellenti”, tra cui il Sottosegretario alle Infrastrutture Simona Vicari che si è dimessa a causa di un rolex, un po’ come avvenne per il ministro allo stesso ramo Maurizio Lupi (anche lui esponente alfaniano).
“Le indagini fin dall’origine – hanno scritto del resto gli inquirenti in una ponderosa ordinanza – hanno evidenziato i rapporti talvolta assai confidenziali tra gli armatori e diversi esponenti delle amministrazioni pubbliche sia a livello politico che dirigenziale”. E quando si parla di politica, appunto, si fa esplicito riferimento anche al governatore. Il vertice delle istituzioni siciliane. Per il quale la Procura ha disposto persino controlli e pedinamenti, sulle assolate stradine di Filicudi, isola delle Eolie. Un’isola per la quale, stando alle intercettazioni, il presidente nutrirebbe una grande, irrefrenabile passione. Al punto da chiedere ai suoi burocrati e allo stesso assessore ai Trasporti, di creare una “corsa” attiva tutto l’anno. Un aliscafo pronto a salpare da Palermo anche nelle stagioni rigide, su quel mare d’inverno che persino Loredana Bertè tanti anni fa definì un “concetto che il pensiero non considera”.
Non per il presidente che si sarebbe innamorato, stando alle conversazioni tra assessori e armatori, tra sindaci e burocrati, non solo delle bellezze naturalistiche dell’isolotto. E così, la patina dei discorsi da bar, la marmellata delle facili ironie, delle battute da caserma, si stende su un’amicizia tra il governatore e il gestore di un hotel a Filicudi che potrebbe avere però dei risvolti giudiziari, al di là del canovaccio da softcore, da sboccacciato filmetto anni ottanta. “Non sono un novello Formigoni”, si è sfogato subito Crocetta, prima di presentarsi all’opinione pubblica come un governatore francescano: “Quando ero a Filicudi, – ha raccontato – rifiutavo i giri in barca perché sapevo che me li avrebbero fatto fare gratis. Non andavo nei lidi perché temevo non mi facessero pagare. Così me ne andavo tra gli scogli, tra le pietre, senza nemmeno un ombrellone“.
Roba da rimanere scottati. Ma nelle carte degli inquirenti c’è il sospetto, e più di quello, che il governatore potesse utilizzare la Regione, le sue casse, per un “capriccio” come lo ha definito il suo stesso assessore. Un guaio che si aggiunge ad altre contestazioni della Procura, che ha deciso di recapitare al presidente un avviso di comparizione. L’accusa, in quel caso, è relativa a uno strano bonifico che l’armatore Morace avrebbe fatto giungere al nuovo movimento politico di Crocetta, “Riparte Sicilia”. “Sono così cretino da farmi corrompere con un bonifico? Se fosse così – ha spiegato Crocetta – dovrei autoproclamarmi primo presidente coglione della Regione”
Al di là della consistenza delle accuse a Crocetta, però, e delle personalissime presunte responsabilità del governatore, c’è un dato che è emerso dall’inchiesta con una evidenza inaffondabile: la Regione degli scandali è sempre lì, tale e quale, così come in passato. Gli sprechi non sono stati debellati, e gli assessorati sono permeabili, gli uffici corruttibili, ora come allora. E come poche settimane fa, quando gli scandali venivano serviti al pubblico della domenica, insieme ad abbondanti dosi di populismo, di numeri strampalati, di manicheismo da fumetto. Scandali dai quali, però, il governatore si era sempre ovviamente tirato fuori.
Stavolta non è così. E del resto, le incrinature sul paravento legalitario di Crocetta erano apparse già da tempo. E l’inchiesta sui rapporti tra politica e imprenditori privati non pare poi così dissimile da un’altra indagine che investì la Sicilia degli scandali mai estirpati. Un contesto fatto di amicizie e pubbliche relazioni, una Sicilia degli interessi pubblici piegati alle consuetudini dei caminetti, dei rapporti più o meno personali.
È l’indagine che un paio di anni fa coinvolse alcuni medici e manager della Sanità siciliana. Anche in quel caso le intercettazioni svelarono la filigrana di una Regione ripulita solo in apparenza, le trame fittissime che legavano il pubblico e il privato. Gli ospedali siciliani e le amicizie. Inchieste che coinvolsero Giacomo Sampieri, commissario di un grosso ospedale palermitano, il “Villa Sofia-Cervello”, e in ottimi e frequenti rapporti col presidente della Regione. Il primario Matteo Tutino, invece, finito ai domiciliari, la mattina dell’arresto, all’arrivo delle forze dell’ordine chiamò proprio Rosario Crocetta. Che liquidò quei rapporti con un semplice: “E’ solo un medico da cui mi sono fatto curare qualche volta”.
Fatto sta che già mesi addietro, proprio da quella Sanità malata e dalla giunta di Crocetta era fuggita, sbattendo la porta, addirittura Lucia Borsellino, figlia del magistrato Paolo, che parlerà di dimissioni dovute a “ragioni di ordine etico e morale”. Un concetto che sarà ribadito in maniera drammatica dal figlio di Paolo, Manfredi, di fronte al presidente della Repubblica Mattarella: “Lucia ha portato la croce perché voleva una sanità libera e felice”.
Tutto dimenticato. Troppo presto, forse. Sepolto dalle successive sparate del governatore sulle magnifiche azioni di pulizia in una Regione rimasta identica a prima. E non è un caso che alla fine del 2016 la Sicilia risultasse tra le Regioni più corrotte d’Italia, dietro solo a Campania e Lombardia. Non esattamente un successo, per il governo che avrebbe dovuto portare, anche nella pubblica amministrazione, il vento fresco della legalità.
E che invece è impegnato, in questi mesi, nell’occupazione militare di ogni poltrona pubblica. Crocetta ha piazzato fedelissimi ovunque, a volte persino eludendo le norme pur di nominare un amico. È successo in un grosso ente pubblico che si occupa di finanziamenti alle cooperative siciliane, dove Crocetta ha fatto di tutto per designare un proprio consulente di origine tunisina. Nel cda di un istituto di credito regionale ha invece inviato il proprio Segretario generale e il proprio capo di gabinetto. Rantoli di un’agonia politica, spesso finiti, anche questi, sui tavoli delle Procure.
Nell’ultima indagine, ad esempio, quella sulla presunta corruzione per favorire gli armatori Morace, è stato il turno di Massimo Finocchiaro, che Crocetta ha voluto a capo di una mega-azienda che si occupa del trasporto pubblico. Il funzionario è un amico personale, un militante del Megafono dalla prima ora, un attivo sostenitore di Crocetta fin dalla campagna elettorale del 2012.
Ma non è l’unico caso. Della Sanità, così come dell’inchiesta contabile su Antonio Ingroia abbiamo già detto, ma lo stesso si può dire per esponenti della burocrazia regionale, per amministratori di alcune società partecipate, per giungere fino al suo vero braccio destro: il Segretario generale della Regione siciliana Patrizia Monterosso, fedelissima di un governatore che ricambia con almeno altrettanta fiducia, è già stata condannata dalla Corte dei conti per un danno all’erario da oltre un milione di euro ed è anche finita sotto processo per un presunto peculato. Che ha fatto il moralizzatore che diffondeva dai microfoni delle conferenze stampa e dal tubo catodico il Verbo della legalità? Prima le ha rinnovato l’incarico, poi ha anche deciso, nonostante un parere di segno opposto dell’Avvocatura dello Stato, che la Regione siciliana non dovrà costituirsi parte civile contro la dirigente. A differenza di quanto fatto in tante occasioni analoghe nel corso di questi quattro anni e mezzo di legislatura. Perché in fondo, la morale della favola è anche questa: il moralista, presto moralizzato, ha sempre con sé una morale di scorta.
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03 Giugno 2017, 06:00