28 Febbraio 2017, 11:50
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Chi tira i fili delle esistenze al limite della sopportazione? Chi è il conduttore unico delle coscienze: Grillo, Di Maio, Giletti, Pif?
Chi presiede alla sceneggiata calcolatissima della Grande Rabbia? Chi si presta, con sprezzo del ridicolo, a farsi prendere dall’incollatura dei capelli per esibirsi sul palco del ‘Vaffanculo’, nel gran teatro dei grillini?
L’ultimo spettacolo è sulla bocca di tutti e tutti l’hanno visto e gustato fino all’ultima goccia di fiele. Massimo Giletti, con la tecnica sperimentata del conduttore-condottiero, Rosario Crocetta nelle vesti del supplichevole sparring partner. E la Sicilia denudata, raccontata nelle sue innegabili contraddizioni, ma con l’aggiunta della grancassa di Mangiafoco, delle retoriche che moltiplicano gli effetti speciali. E lo show non finisce qui: ancora di brutte ne vedremo.
I committenti dell’Opera dei pupari hanno deciso. Per i prossimi mesi in cartellone ci sarà la ‘Buttanissima Sicilia’, decrittata da Pietrangelo Buttafuoco e Peppino Sottile con un marchio indimenticabile: riscritta con i suoi squallori, i suoi tremori e i suoi inganni. Solo che dietro lo show trapela già la stanchezza. Se il titolo originario era il lampo che squarcia anni di pestilenza e di sonnolenza, il menu ripetuto ogni santo giorno, dietro le grida di compiacimento, sa già di stantio, anche se nessuno può ammetterlo, pena la scomunica del club degli inkazzati.
Il puparo, metaforicamente e genericamente inteso, è appunto il provetto maneggiatore di fili del salotto televisivo, del grande giornalone nazionale, il king maker, l’opinion leader, l’indignato speciale, che ha agganciato la sua preda mediatica e non ha intenzione di mollarla più. E lo fa per amore di verità, si intende, perché è sacrosanto inchiodare le storture ai loro legnosi paradossi, ma dietro di sé, alla fine della rappresentazione, lascia una bava di pupi sconsolati, senz’altra soddisfazione che le proprie viscere rovesciate.
Che mirabilia di sconcezze nella Trinacria bedda. Che sugo. Che polpa. Per ogni pietra che alzi c’è un vitalizio. Sotto ogni cespuglio, dormicchia un ex onorevole dalla voce stentorea, guance incavate, volto pallido, che confessa di essere un membro dell’odiata Kasta con le sarde. Per ogni pertugio (rectius, pirtuso) c’è un privilegio che gli implacabili eroi, innamorati dell’articolo ventuno della Costituzione, sfidano a duello al cospetto del popolo tifante.
Ma ecco la domanda ribalda che nulla toglie alla nobiltà dell’indignazione e solo ombreggia un problema di prospettiva: tutto questo agitarsi di pupari a cosa serve, quali frutti porterà oltre la demagogia della denuncia? L’articolo ventuno – quello sulla libertà di stampa e di espressione, si capisce – è un piccone utilissimo per buttare giù pezzi di regime, o perlomeno per mimare il gesto rivoluzionario. Tuttavia, chi provvederà a rimettere insieme i cocci, a rialzare i pupi tragicamente sepolti dalla frana che porta a valle peccatori e immacolati, nella scia dello stesso succo gastrico?
Chi si occupa, insomma, dei guai dei siciliani che rimangono purulenti e intoccati, nonostante l’esibizione? Chi ci pensa ai loro ospedali da Terzo Mondo? Chi toglie un filo di disperazione dagli occhi dei padri che hanno perso il lavoro, dallo sguardo dei figli che mai lo ebbero, dal sospiro dei nonni, residuati di un welfare antico, che con una pensione campano tre famiglie?
Chi darà una prospettiva ai disperati della Formazione? Chi ristorerà un’Isola svenata anche dal Crocettismo – ‘non farò macelleria sociale’, disse Saro, prima di inaugurare una catena di premiate carnezzerie – ammaliata dalla sua antimafia dei cognomi celebri e delle vanità, tradita dal suo nulla politica? Chi tirerà il freno a mano a un metro dal baratro?
E non è benaltrismo, piuttosto, sgomento. Perché non si discute mai di rinascita in tanto ‘vitaliziare’, nei trasalimenti della casta mediatico-salottiera che si traveste da anticasta pur di arrivare, trafelata, al traguardo dell’imminente potere, nel teatro dell’ira di cose passate che si pone quale vestale del nuovo.
Tutti, correttamente, deplorano le cattive condizioni del malato e imprecano e strepitano. Nessuno che azzardi: “Guardate, qui ho una pillola. Proviamo a salvarlo”. Questo è il difetto di fabbrica della denuncia che si limita a denunciare. Tutti sono attori e spettatori di una rovina annunciata che non disinnescano, mentre la maledicono.
Gli stessi sicilianissimi pupi non sanno che fare, non sanno più per chi votare, soffocati fra la tradizione incapace e la novità che non offre talento. Si aggirano sulla scena, fantasmi di se stessi, recitando la parte scritta da altri.
In cima, lassù, ci sono loro, i pupari che tirano i fili. Al centro c’è la Sicilia denudata che tanti professionisti della Grande Rabbia, per primi, desiderano irredimibile, altrimenti cosa metterebbero in scaletta e sulle tavole di una rivolta senza rivoluzione? Perché è così che ci vogliono, pupi appesi al filo dopo la recita. Perché è così che ci amano. Siciliani e buttanissimi, gabbati, per sempre.
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28 Febbraio 2017, 11:50