Da Scarantino difeso ad Avola smentito: come cambiano tempi

Da Scarantino difeso ad Avola smentito: come cambiano i tempi

Alle bugie del picciotto della Guadagna i magistrati credettero a oltranza. Oggi un pm ricorre a una nota stampa
STRAGE BORSELLINO
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Da un pentito, Vincenzo Scarantino, difeso a oltranza, a un altro, Maurizio Avola, ‘scaricato’ con un comunicato stampa. Come cambiano i tempi e le azioni della magistratura.

Per decenni, subito dopo le stragi del ’92 e fino al 2011, la Procura di Caltanissetta e i giudici dei processi hanno creduto alle storielle di Scarantino. Si erano convinti che un delinquente di borgata, uno che si dava da fare per sbarcare il lunario nella giungla della criminalità – questo era Scarantino – solo in virtù delle sue parentele mafiose potesse avere partecipato all’organizzazione della strage Borsellino.

Totò Riina e soci, che alzarono l’asticella dell’orrore con le bombe, si erano fidati di un picciotto che nella borgata della Guadagna godeva di una pessima reputazione. Scarantino non fu il solo. C’erano anche Calogero Pulci e Francesco Andriotta: più le sparavano grosse e più venivano creduti.

Le bugie dei pentiti hanno reso possibile una delle pagine più buie della storia giudiziaria d’Italia. C’erano delle voci fuori dal coro, su tutte quelle degli avvocati degli imputati, che però sono rimaste inascoltate. Ma anche all’interno della stessa magistratura. La sentenza del processo Borsellino ter, emessa dalla Corte d’assise di Caltanissetta allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, nelle motivazioni parlava di “dubbia attendibilità” di Scarantino, “parto della fantasia”, “dichiarazioni non genuine perché gravemente sospette di essere state attinte addirittura dalla stampa”.

Avrebbe potuto essere un campanello di allarme, un invito a rivedere con criticità il lavoro svolto. Ed invece i pubblici ministeri di allora appellarono alcune assoluzioni. E così Gaetano Murana, per esempio, da assolto si ritrovò condannato all’ergastolo. Un ventennio dopo, nel 2011, quella sentenza è divenuta carta straccia.

Oggi, invece, all’indomani della pubblicazione di un libro che segna il ritorno di Michele Santoro sulla scena e della messa in onda su La 7 di uno speciale sulla mafia il procuratore aggiunto Gabriele Paci, che al momento guida la Procura nissena in attesa della nomina del nuovo capo, prende carta e penna per sconfessare Maurizio Avola, killer catanese di 80 omicidi, a cui spetta la paternità delle ultime e roboanti dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio.

I titoli sulla stampa, almeno in questo caso (su Scarantino non andò così ma era anni e tempi diversi per tutti, per i magistrati e pure per i giornalisti), forse serviranno per stoppare l’ennesimo romanzo criminale. Ma non si può sfuggire a un interrogativo: bisognava aspettare il comunicato di un magistrato per rendersi conto quantomeno dell’anomala dilatazione temporale delle dichiarazioni di Avola, ennesimo pentito fuori tempo massimo?

Che smemorati questi collaboratori di giustizia. Solo per contenere il perimetro degli esempi, oltre che quello dei 180 giorni entro cui un pentito ha l’obbligo di raccontare tutto ciò che sa, si può fare riferimento ai casi più recenti. C’è Avola che ricorda a distanza di 27 anni dal suo pentimento di avere riempito di esplosivo la macchina che dilaniò i corpi di Borsellino e degli uomini di scorta.

Vincenzo Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria, si era dimenticato di riferire che fu il poliziotto Giovanni Aiello, alias ‘faccia di mostro’, personaggio a cui sono state attribuite le peggiori nefandezze, aveva in mano il telecomando della strage Borsellino. E avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, trucidati nel 1989.

Il messinese Carmelo D’Amico, nel suo percorso di collaborazione a rate sine die, ad un certo punto ha detto che “Andreotti, con altri politici, e i servizi segreti sono i mandanti delle stragi del ‘92, di Capaci e di via D’Amelio”. Non ne ha parlato prima per paura di essere ammazzato dai servizi segreti in carcere proprio come come sarebbe già avvenuto per altri. Inutile chiedergli “chi, dove e quando” perché il collaboratore tace.

Si potrebbe proseguire ancora citando altri esempi di collaboratori, la cui importanza resta decisiva quando dicono la verità e rispettano tempi e modalità, che hanno preso per mano la magistratura conducendole verso il pantano. O addirittura verso il deragliamento come nel caso di Scarantino che qualcuno, c’è un processo in corso per questo, avrebbe imbeccato per depistare le indagini e allontanare i magistrati distratti dalla verità. Il clima era diverso, le bombe e i corpi a brandelli erano stati destabilizzanti, il terrore disorientava.

Oggi le cose, per fortuna, sono cambiate. E lo dimostra il fatto che un procuratore aggiunto, Gabriele Paci, decide di prendere carta e penna per smentire un collaboratore di giustizia. Non è detto che basterà a bloccare i vasi comunicanti della giustizia per cui le dichiarazioni transitano da un aula di giustizia a un salotto televisivo o viceversa.


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