24 Settembre 2016, 06:03
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PALERMO – Quasi quasi agli imputati eccellenti – politici e non – conviene sperare che a Palermo un giudice per le indagini preliminari imponga di processarli, anche contro l’iniziale volontà della Procura. Succede spesso che escano indenni quando di mezzo ci sono reati legati alla mafia. Dal concorso esterno al favoreggiamento aggravato.
L’ultimo esempio arriva dalla sentenza d’appello che ha assolto il senatore Antonio D’Alì e dichiarato prescritti i presunti reati commessi prima del 1994. Un po’ come era avvenuto per un altro senatore, Giulio Andreotti, la cui parziale prescrizione ha dato fiato per decenni al dibattito – giudiziario, storico e politico – fra innocentisti e colpevolisti.
Il senatore D’Alì, di Forza Italia prima e del Pdl poi, imputato di concorso concorso in associazione mafiosa lo è diventato nonostante la Procura di Palermo avesse chiesto due volte l’archiviazione. Il giudice Antonella Consiglio la pensava diversamente e impose nuove indagini. I pm finirono per cambiare idea – anche questo accade spesso – chiedendo il rinvio a giudizio e poi la condanna in primo grado a sette anni e quattro mesi.
Era già successo con alcuni carabinieri. Nel 2002 furono i pubblici ministeri a proporre di chiudere l’inchiesta sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, in via Bernini, a Palermo. Il gip Vincenzina Massa disse che bisognava continuare a indagare. E così il fascicolo a carico di ignoti ospitò i noti Mario Mori – nel ’93 era vicecomandante del Ros – e Sergio De Caprio, il capitano Ultimo che ammanettò Riina. L’ipotesi di reato era favoreggiamento. Arrivò, però, una seconda richiesta di archiviazione da parte dei pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino seguita da un’imputazione coatta. Esito del processo: assoluzione. La Procura, a differenza di quanto è avvenuto per D’Alì, non appellò la sentenza che divenne definitiva.
Successivamente i pm Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo, almeno all’inizio, non avrebbero voluto processare Mario Mori, sempre lui, e il colonnello Mauro Obinu, assolti dall’ipotesi di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per avere fatto saltare, così sosteneva l’accusa, la cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso. E dire che nel 2007 la stessa Procura chiese l’archiviazione ritenendo che mancasse la volontà di Mori, Obinu e del capo del Ros, il generale Antonio Subranni (poi, uscito dalle indagini) di fare scappare il padrino corleonese. Il gip Maria Pino ordinò nuove indagini, usando parole dure nei confronti dei carabinieri. Alla fine i pm ne sposarono la tesi visto che chiesero la condanna degli imputati.
Fu, invece, il giudice Giuliano Castiglia a respingere la richiesta di archiviazione, ordinando l’imputazione coatta, per l’ex ministero Saverio Romano. Anche la sua fu un’inchiesta dai tempi lunghissimi e pure per lui i pubblici ministeri finirono per cambiare idea. Dopo avere chiesto di chiudere il caso l’aggiunto Ignazio De Francisci e il sostituto Di Matteo invocarono una condanna a otto anni. Il gup Fernando Sestito mandò assolto l’imputato. Assoluzione mai appellata e dunque definitiva.
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24 Settembre 2016, 06:03