05 Luglio 2013, 15:36
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MARSALA – “Condannate il Golem di Matteo Messina Denaro”. Gli inquirenti della procura antimafia di Palermo concludendo alcuni anni addietro le inchieste condotte dalla Squadra Mobile di Trapani e servite a fare terra bruciata attorno al latitante Matteo Messina Denaro, le presentarono alla stampa con il nome in codice “Golem”. Hanno preso a prestito un nome che appartiene alla mitologia ebraica, Golem per l’appunto. Golem perché le persone arrestate avrebbero agito sotto gli ordini di Matteo Messina Denaro, come servi, dotati di una straordinaria forza e resistenza, pronti a portare in giro la “verità” – del boss – secondo la visione del latitante che nel tempo si è macchiato, in nome di questa sua verità, dei più orrendi delitti, mandante e autore di stragi come quelle del 1993 di Roma, Milano e Firenze.
Oggi in Tribunale a Marsala sono state chieste condanne per oltre 200 di carcere, chieste dai pm della Dda di Palermo, Paolo Guido e Marzia Sabella, nei confronti di tredici imputati processati per mafia, estorsioni, danneggiamenti, favoreggiamento, dinanzi al Tribunale di Marsala. Primo fra tutti gli imputati il super latitante Matteo Messina Denaro, castelvetranese, 51 anni, latitante da 20 anni, capo indiscusso della mafia trapanese. Le richieste di condanna giunte a conclusione del dibattimento scaturito dall’operazione antimafia “Golem 2” riguardano Matteo Messina Denaro (30 anni), Maurizio Arimondi (16 anni), Calogero Cangemi (14 anni), Lorenzo Catalanotto (20 anni), Tonino Catania (21 anni), Giovanni Filardo (21 anni), Leonardo Ippolito (18 anni), Marco Manzo (6 anni), Nicolò Nicolosi (6 anni e 3 mesi), Vincenzo Panicola (16 anni), Giovanni Risalvato (25 anni), Filippo Sammartano (5 anni e 3 mesi), Giovanni Stallone (4 anni e 2 mesi). I pubblici ministeri nella loro requisitoria hanno ricostruito l’ultimo dei pezzi di storia riguardanti la latitanza del capo mafia e di come lui riusciva a collegarsi con i suoi complici, al Tribunale hanno anche affidato una maxi memoria di 800 pagine.
Le complesse attività di indagine e processuali, hanno consentito di individuare ruoli, strategie, modalità operative di Cosa nostra trapanese, proiettata ad assumere condotte illecite, funzionali alla realizzazione degli interessi dell’associazione medesima, capitanata dal boss trapanese Matteo Messina Denaro, vertice della struttura colpita. Le richieste di condanna riguardano esponenti strategici delle famiglie mafiose di Campobello di Mazara e di Castelvetrano, storiche roccaforti del capomafia, da sempre “cosche” protagoniste delle più significative dinamiche mafiose nella provincia di Trapani. I soggetti hanno svolto un fondamentale ruolo nel sostegno alla latitanza di Messina Denaro, assicurandogli, tra le altre cose, il mantenimento di riservati canali di comunicazione con i componenti di vertice di Cosa nostra palermitana. L’azione di copertura è consistita anche nel garantire a Messina Denaro documenti d’identità falsi ma soprattutto nel realizzare una rete per garantire costanza ad una martellante azione estorsiva, richiesta di tangenti ad imprenditori locali. Tra le vicende scoperte alcuni incendi ordinati dal boss, come quelli che hanno colpito il consigliere comunale Pasquale Calamia, colpevole di avere auspicato in consiglio comunale a Castelvetrano la cattura di Messina Denaro, o l’imprenditore Nicolò Clemenza che si era fatto promotore della creazione di un consorzio di produttori oleari che avrebbe dato fastidio al super latitante. Intercettato dagli investigatori fu anche il sistema di “comunicazione postale” della mafia, ossia Messina Denaro con assoluta puntualità periodica provvedeva a garantire lo scambio di pizzini all’interno della cosca. Fu in questa fase che la polizia scoprì l’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino che si relazionava segretamente con Matteo Messina Denaro.
Sul conto di Vaccarino, condannato a suo tempo per traffico di droga e assolto dalle accuse di associazione mafiosa, dopo il ritorno in libertà si seppe che stava agendo per conto dei servizi segreti nel tentativo di agevolare la cattura del latitante. Attività che però il Sisde gestiva tenendo all’oscuro la Procura antimafia di Palermo. Fu l’allora capo del Sisde, generale Mori, a rappresentare ai magistrati che stavano nuovamente indagando Vaccarino, che l’ex sindaco era stato da loro assoldato. Il nome di Vaccarino peraltro nel 2006 era venuto fuori dai “pizzini” trovati in possesso al boss Bernardo Provenzano: per conto di Messina Denaro, Vaccarino avrebbe dovuto occuparsi della costruzione di una stazione di servizio sull’autostrada A 29.
“Il capo è lui”
“Matteo Messina Denaro, oggi, può essere considerato il capo assoluto di Cosa Nostra”. A affermarlo è stato il pm della Dda di Palermo Marzia Sabella nel corso della requisitoria tenuta, davanti il Tribunale di Marsala, nel processo scaturito dall’operazione “Golem 2” del 15 marzo 2010.
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05 Luglio 2013, 15:36