13 Aprile 2014, 06:35
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C’è un sottomondo di esseri umani che arrancano e non riescono a fare quadrare i conti. Che cercano di tirare avanti, mentre gli aristocratici dell’ultramondo ci spiegano che la crisi, per fortuna, è finita. Se soffriamo, sarà dunque un po’ colpa nostra. Nel sottomondo, nella trincea delle persone in carne e ossa, vive Salvo P. che un giorno ha scritto una lettera a Livesicilia. Una brevissima mail: “Sto cercando un terreno abbandonato dove posso coltivare ortaggi e guadagnarmi da vivere. Se potete aiutarmi vi ringrazio”.
Abbiamo chiamato Salvo al telefono, gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia. Lui è venuto a trovarci in redazione. L’ha raccontata: “Ho fatto il bracciante agricolo per quasi trent’anni, naturalmente in nero. Non ho contributi, non ho niente. Sono stato licenziato perché c’è la catastrofe in giro. Il mio padrone non può più garantirmi. Non ho nulla per me. Ho una moglie e una figlia di tredici anni. Sopravviviamo grazie a mio suocero che ci aiuta, quando è possibile”.
Salvo P. ha mani che spiegano da sole la sua vita. Il palmo è calloso, attraversato da strisce rossastre. Le dita sono gonfie. Le unghie sembrano di legno. Le nocche sono durissime. “Ho perso la dignità con la perdita del mio lavoro. E’ come se non esistessi più. La mattina non ho nemmeno la forza di alzarmi dal letto. Lo faccio solo per la mia famiglia. Ho incontrato qualche persona, qualche politico. Ho ricevuto promesse e ho fiducia. Ma fate presto, non posso più aspettare”.
Era difficile l’esistenza da contadino, eppure benedetta: “Mi alzavo all’alba, andavo coricarmi col buio. Non c’erano le feste, né Pasqua, né Natale, né Capodanno. Ma non mi sono lamentato, mai. Era una fatica necessaria e lo sapevo. Ora che ho perso tutto, sto veramente male. Chiedo aiuto. Sono un bracciante agricolo, questo so fare. Vorrei un campo per coltivare, mangiare e provare a rivendere qualcosa. Se va avanti così non so cosa sarà di me e della mia famiglia. Potete aiutarmi? Potete mettermi in contatto con qualcuno?”.
Salvo P. è un manifesto ambulante della crisi. Un acquarello greco. Il corpo è magrissimo. L’espressione è addolorata, pure quando tenta di sorridere. Gli occhi hanno una malinconia che li appesantisce e che diventa furia, se si accendono. Nel sottomondo che la politica non riesce più a vedere – qualunque politica con le sue speranze e rivoluzioni di cartapesta – ci si imbatte in desolate fotocopie. La faglia della disperazione è varia. Nella fascia più alta, nella zona di una povertà un po’ garantita, ci sono quelli che stavano bene e adesso stanno male, perché lo stipendio non basta più. Li riconosci al supermercato: prima di mettere nel carrello il barattolo dei sottaceti impiegano un’ora a comparare le offerte, a calcolare, a sottrarre, a valutare. Due euro possono fare la differenza tra arrivare a fine mese o no.
Scendendo più giù, per i gironi infernali, si piomba in zona Salvo. Nella profondità dei dannati che avevano una paga scarna e intermittente e non hanno più neanche quella. Mentre leggiamo ovunque le mirabolanti imprese di un Paese che “può farcela”, le gloriose avventure di una Sicilia “che dice no alla mafia”, file di insospettabili affollano le mese della Caritas, i negozi chiudono, la speranza appassisce, la poca fiducia residua muore.
Una politica veramente preoccupata dell’effetto Bastiglia dovrebbe moltiplicare per mille la storia di Salvo P., studiarla a fondo, provare a porre rimedio, o almeno condividere un cammino di lacrime e sangue, se non c’è altra scelta. Salvo che aveva “un padrone” sta morendo di fame, perché anche il suo padrone è diventato schiavo del bisogno. Troppi schiavi producono rabbia infinita, voglia feroce di vendetta. E’ la scintilla che può incendiare tutto. Le rivoluzioni cominciano così.
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13 Aprile 2014, 06:35