Degrado, caffè, amicizia | E’ il mondo dei rom di Palermo

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07 Febbraio 2011, 15:35

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Ci vuole tempo, ma poi ti invitano ad entrare. In quella baracca di eternit e tufo sta il loro mondo, dove i passi si fanno silenziosi sui tappeti. Tra i cuscini le donne offrono tè, caffè o Coca Cola. Poco più in là dei gradini portano alla stanza da letto: è la roulotte che prese il posto delle tende fornite dalla prefettura, quando la comunità rom trasferì al Parco della Favorita. “Vale molto di più la dimensione personale” racconta Luisa Scardina, assistente sociale per il ministero della Giustizia. Quella dei rom è una realtà dove serve a poco fare sfoggio di un qualsivoglia ruolo sociale. “Rigettano il rapporto rigido delle istituzioni e vanno sulla difensiva. Come tutte le culture, anche la loro è etnocentrica”, spiega Luisa Scardina, pesando le parole sulla bilancia della sua esperienza, iniziata 25 anni fa. Era una volontaria, una studentessa: “Abbracciavo i loro bambini tranquillamente, senza paura dei pidocchi, che non ho mai preso”. Erano come piccoli segnali, i suoi. Qui la fiducia scorre come i granelli di una clessidra. “Così – continua l’operatrice – quando hanno visto che ero lì per aiutarli, che non volevo portare via i loro bambini, hanno iniziato ad accettarmi e io non ho mai rifiutato la loro ospitalità”.

Lei ebbe i primi contatti con la comunità rom ancora prima che si trasferissero alla Favorita. “Arrivarono nei primi anni ’90. Occuparono le case popolari dello Zen, ancora non assegnate. Per i loro riti particolari come quella dell’uccisione dei capretti durante le loro feste, mettendo a stendere le pelli al sole, ci fu un attentato incendiario”. Prosegue Luisa, nel suo racconto di scontri tra poveri alimentati dall’incomprensione tra culture così distanti che si ritrovano, improvvisamente, così vicine. Arrivò così un’ordinanza. Ed eccoli alla Favorita. Luisa lo ricorda come un periodo felice, che durò un paio d’anni: “Poi – dice – cominciò il degrado più nero”.

Il numero delle famiglie che vivono al campo, in seguito si è disperso tra disoccupazione e giri di vite: “Molti sono andati all’estero, verso la Francia. Alcuni – dice Luisa – nonostante le esperienze positive con i progetti non trvavano lavoro, altri erano terrorizzati di fronte al censimento dei rom, promosso dal governo qualche anno fa”. Da volontaria, Luisa diventò assistente sociale per il Comune e infine per il ministero della Giustizia, con il compito di prendersi carico dei minori tra i 14 e i 18 anni che commettono reato. “Se prima si trattava per lo più di furti negli appartamenti, adesso si è diffusa la prostituzione sia femminile che maschile, oltre a vari episodi di violenza sessuale”, snocciola Luisa, con il tono di chi sa che il proprio ruolo non finisce con l’aiuto ed il sostegno, ma prosegue nel controllo. “Per loro – dice – la legalità non è un valore”. Ma se non si accettano le regole, il più delle volte c’è già chi pensa a farne rispettare altre: “C’è l’intenzione – sospetta Luisa – da parte di qualcuno, all’interno del campo, di mantenere questa situazione”.

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Ma c’è anche chi, tra miseria e degrado, continua a vivere solo di “mangel”, di elemosina; chi invece i soldi se li guadagna, è costretto a rinunciare a se stesso: “Chi vuole veramente lavorare – dice la nostra compagna di viaggio – riesce a farlo. C’è chi è riuscito a trovare lavoro spacciandosi per uno di un’altra nazionalità”. “Vedi, è il paradosso del “ci sono e non ci sono”:  quando devono andare a scuola, quando devono comprare il pane, quando rubano, ci sono. Quando chiedono il lavoro o il permesso di soggiorno, no”.  Mauro Priano, presidente dell’associazione Malipè, srotola così la mappa delle sue convinzioni. Traccia i percorsi e le rotte di un intervento sociale che iniziò diversi anni fa, dipingendoli in fiaba: “Arrivò un buffo signore, una sorta di mago Merlino che destinò un bel po’ di soldi a queste persone attraverso quel meraviglioso strumento che si chiamava 285/97. Questi soldi li pose al centro della tavola rotonda e poi si smaterializzò. Attorno alla tavola rotonda c’erano naturalmente i cavalieri che si lanciarono come avvoltoi sui bandi della 285.  E iniziarono a percorrere una strada”.  Nacquero così progetti come “la Route”, al quale Mauro prese parte. Si trattava di portare animazione, sport, sostegno scolastico.”I primi due anni se ne sono andati solo per conoscersi – spiega Mauro – ma ad un certo punto furono i rom a decidere di prendere parte attivamente al progetto”. Ed ecco i primi sintomi da schizofrenia: “Ti trovi la mattina a incontrare il compagno di classe della De Gasperi. Allora tu anche se sei un rom cerchi di adeguarti. Ma poi torni a casa e ti ritrovi in un luogo in cui manca la legna, manca l’acqua che arriva a corrente alternata, manca il salvavita alla luce… La tua vita è schizzata in due parti”.

Qui la strada dei cavalieri si interrompe sul baratro dei bisogni essenziali: casa, lavoro e salute. Con i rom Mauro sta cercando di costruirci su un ponte, verso la legalità. La sua è un associazione sportiva, attraverso cui è riuscito a formare una squadra di calcetto e a iscriverla al campionato della FIGC. “Attraverso lo sport – spiega – si possono fare tante cose:  integrazione, attraverso il gioco con le altre squadre ma anche all’interno della squadra. I ragazzi compiono visite mediche e sono assicurati sugli infortuni. La speranza è di ricavarne un reddito, permettendo a un ragazzo come lui di prendere una casa e uscire dal campo”.

Lui è Luci, vicepresidente dell’associazione. Luci è nato in un paesino in provincia di Cosenza. E’ di origini Kosovare, ma è venuto alla luce in Calabria ed è arrivato a Palermo venticinque anni fa, quando aveva solo dodici mesi di vita. “Ci sono tre generazioni di rom là dentro. Suo padre venne in Italia, lui è nato in Italia, suo figlio è nato in Italia. Per l’amministrazione però è un nomade. “Ma nomade de che?” Si chiede Mauro. La risposta risale un fiume al contrario, per arrivare alla sorgente, alle origini. Ma la corrente, quella vorrebbe andare verso un mare uniforme, equo: “Può essere nomade la sua lingua, lontana 4000 chilometri, in cui trovi idiomi indiani, turchi, europei, dove trovi il sanscrito, la prima lingua scritta. E loro sono orgogliosi di questo. È la loro cultura. Luci non vorrebbe altro che una casa e un lavoro”. Essere un cittadino come gli altri, insomma.

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07 Febbraio 2011, 15:35

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