Maria Rita, bruciata viva dal marito |Le parti civili chiedono 30 anni

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26 Marzo 2015, 17:21

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CATANIA. Sono le parole della vittima Maria Rita Russo, la giovane insegnante giarrese bruciata viva dal marito nel 2009, a irrompere per la prima volta in aula davanti alla Corte d’assise d’appello di Catania, presieduta da Antonio Giurato. “E’ giunto il momento – dice il legale di parte civile Enzo Mellia – che Maria Rita Russo abbia diritto di parola. Nessuno ha mai pensato alla verità di questa donna, raccontata nell’immediatezza dei fatti a chi l’ha soccorsa”.

E’ dalle testimonianze dei vicini di casa, i primi a giungere nell’abitazione dei coniugi, e degli operatori del 118 che emergerebbe nitidamente, secondo la tesi di parte civile, la premeditazione dell’omicidio da parte di Salvatore Capone, unico imputato. La vittima, pur gravemente ustionata, avrebbe raccontato di essere stata cosparsa dal marito di alcol e benzina, senza soluzione di continuità.

E’ propria questa la novità introdotta nel processo dai legali della famiglia Russo, Enzo Mellia, Giovanni Grasso, Piefrancesco Continella e Nino Garozzo. Salvatore Capone avrebbe ucciso la moglie con un’azione unica, non in due tempi come finora sostenuto. Una tesi che smentirebbe la ricostruzione dell’imputato, secondo la quale l’uomo dopo aver cosparso la moglie con l’alcol tenuto in casa e averle dato fuoco, sarebbe poi sceso in garage, in stato di trance, per prendere la benzina lì custodita e continuare quanto già iniziato. La benzina, secondo i legali, era già in casa, circostanza che dimostrerebbe oltre ogni ragionevole dubbio la sussistenza della premeditazione.

Implacabile, spietato, crudele nell’esecuzione e incapace, così viene descritto in aula l’imputato, di provare alcuna pietas nei confronti della vittima. Come in un drammatico film i legali ricostruiscono, sequenza dopo sequenza, quel tragico 12 novembre. Tutto ha inizio in cucina. Attinta dall’alcol Maria Rita Russo capisce e scappa. Capone la insegue con l’accendigas, come fosse un lanciafiamme, e le dà fuoco. Finito il primo armamento, l’uomo prende la bottiglia di benzina che ha in casa e continua a cospargerla nel bagno. Un’aggressione brutale che non si ferma, sostengono i legali, nemmeno quando la donna, in preda alla disperazione, colpisce con la testa la finestra del bagno, infrangendola.

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A spingere la mano omicida dell’uomo sarebbe la consapevolezza che proprio quel giorno avrebbe dovuto lasciare il tetto coniugale. Non solo. Capone, che due giorni prima ha avuto un colloquio con il proprio legale, prende coscienza che la separazione avrebbe avuto un costo anche a livello patrimoniale. Da un’intercettazione in carcere, captata tra l’imputato e i propri familiari poco dopo la morte della moglie, emergerebbe il suo attaccamento al denaro. Chiesta la conferma della condanna a 30 anni di carcere, già inflitta da un’altra sezione della Corte d’assise d’appello.

Per il legale Goffredo D’Antona, che assiste i figli minorenni della coppia, Capone non solo avrebbe premeditato l’omicidio della moglie ma anche quello dei bambini. I cumuli di vestiti accatastati tra i lettini dei figli, a cui l’imputato dà fuoco dopo aver aggredito la moglie, dimostrerebbero la presenza di un piano preordinato. Solo l’arrivo dei vicini avrebbe scongiurato, secondo il legale, un bilancio ben più grave.

Il 27 marzo la parola passerà agli avvocati della difesa, Enzo Iofrida e Giovanni Spada. Dopo la Corte si ritirerà in camera di consiglio per l’attesa sentenza.

 

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26 Marzo 2015, 17:21

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