03 Aprile 2014, 06:11
4 min di lettura
CATANIA – Il duplice delitto di Angelo Santapaola e del suo guardaspalle Nicola Sedici è stato l’epilogo di una delle pagine più sanguinarie della storia di cosa nostra catanese. Per questo delitto oggi c’è una sentenza di condanna in primo grado all’ergastolo per Enzo Aiello con l’accusa di omicidio, mentre per favoreggiamento aggravato dovrà scontare tre anni in carcere Salvatore Di Bennardo.
“UN CANE SCIOLTO” – Quanto accadde il 26 settembre del 2007 in un macello dismesso della Catania – Gela porta alla luce la spietatezza dei sicari della famiglia dello zio “Nitto”. I corpi, irriconoscibili, saranno ritrovati solo qualche giorno dopo in un casolare diroccato di Ramacca dai carabinieri. Per il riconoscimento dei cadaveri “in uno stato terribile” furono decisive le fedi nuziali con incisi i nomi delle mogli delle vittime, Grazia Corra e Claudia Crisafulli. I Santapaola sono pronti ad uccidere, senza possibilità d’appello, anche uomini “dello stesso sangue” se questi non rispettano le regole della famiglia. E sarebbe stato proprio questo “comportamento” a determinare la condanna a morte per Angelo Santapaola. Un “cane sciolto” secondo il collaboratore di giustizia Santo La Causa che dopo la sua scarcerazione nel 2004, si ritagliò un ruolo di rilievo nella cosca e anche al tavolo dei padrini palermitani, soprattutto sfruttando il suo cognome. La sua “allegra” gestione delle estorsioni, però, sempre secondo il pentito, avrebbe provocato forti contrasti con Vincenzo Aiello. Santapaola, venne “zittito” perché “non aveva la convinta adesione dei componenti della sua stessa organizzazione”.
LE PROVE SCHIACCIANTI – A dare la svolta alle indagini sull’omicidio di Angelo Santapaola e Nicola Sedici sono le parole ai magistrati di Santo La Causa. Il collaboratore di giustizia indica il luogo dell’agguato e lì si troveranno le prove “principe” che incastreranno il boss Enzo Aiello. Sul posto i carabinieri trovarono i tre bossoli con cui furono ammazzate le due vittime e anche due tracce ematiche. Per i Ris quel sangue apparteneva con “certezza ad Angelo Santapaola” e al “90% a Nicola Sedici”. Oltre al materiale biologico anche un frammento osseo finisce nei microscopi dei Ris: anche questo attribuibile al cugino del capomafia Nitto. A chiudere il cerchio probatorio che confermerebbe “con certezza come Aiello – come detto durante la requisitoria dai pm Antonino Fanara e Agata Santonocito – si trovasse nel luogo dell’omicidio quando questo venne commesso” anche i controlli incrociati delle celle telefoniche e le intercettazioni prima e dopo l’ora del delitto sull’utenza del boss detenuto a Parma. Il cellulare di Aiello si aggancia a delle celle telefoniche che provano la sua presenza nei presi del macello della Catania – Gela sin dalla mattina. Ci sono diverse conversazioni telefoniche tra il boss, Alfonso Fiammetta, condannato nel rito abbreviato del processo “Iblis”, e Salvatore Dibennardo, il titolare del lavaggio auto di Palagonia che avrebbe fornito l’auto per sbarazzarsi dei cadaveri, attraverso cui gli investigatori hanno ricostruito come i tre uomini si sarebbero organizzati per il trasporto dei corpi fino alla pulizia della macchina dalle macchie di sangue. Ricostruzioni minuziose raccontate nel corso delle udienze dagli ufficiali del Ros, tra i testi chiave del processo.
LA SENTENZA – L’apparato probatorio portato dalla Procura ha convinto la Corte d’Assise che ha emesso una sentenza di condanna. “Vincenzo Maria Aiello e Salvatore Di Bennardo sono colpevoli per i delitti di Angelo Santapaola e Nicola Sedici”. Questo si legge nel dispositivo firmato dal presidente Rosario Cuteri. “Aiello è condannato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno”. Accolta in pieno, dunque, la richiesta dell’accusa rappresentata dai pm Antonino Fanara e Agata Santonocito. La Corte ha “dichiarato Aiello interdetto in perpetuo dai pubblici uffici nonché in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena e decaduto dalla potestà genitoriale”. I giudici inoltre hanno ordinato che la sentenza di condanna deve essere “pubblicata, per estratto, mediante affissione nei Comuni di Catania e di Montopoli in Val d’Amo (PI) e nel sito internet del Ministero della Giustizia per la durata di trenta giorni trenta”. Condanna, invece, a tre anni e quattro mesi per l’altro imputato del Salvatore Di Bennardo su cui pendeva l’accusa di favoreggiamento aggravato. Per lui è stata disposta l’interdizione “dai pubblici uffici per cinque anni”. La Corte depositerà le motivazioni della sentenza entro 90 giorni.
Pubblicato il
03 Aprile 2014, 06:11