01 Novembre 2019, 16:57
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PALERMO – Ha denunciato le estorsioni della Stidda portando all’arresto di 18 affiliati alla mafia di Gela, ma è stato colpito da un’interdittiva antimafia. È la storia di un imprenditore che con il suo contributo ha favorito l’operazione dei carabinieri contro la mafia e sul quale si sono poi allungate le ombre dei possibili condizionamenti della criminalità. Ombre spazzate via dal Tar di Palermo che ha annullato i provvedimenti con i quali la Prefettura di Caltanissetta aveva disposto nei suoi confronti l’interdittiva. Per i giudici, infatti, non era stato giustificato in modo chiaro il rischio di infiltrazione mafiosa.
L’interdittiva però non è l’unico atto annullato. Con essa sono stati travolti tutti i provvedimenti delle amministrazioni pubbliche che, proprio a seguito dell’atto, hanno chiuso i rapporti con l’azienda: la nota del distretto minerario di Caltanissetta che ha dichiarato decaduta l’autorizzazione per tenere aperta un cava di sabbia e la nota del Comune di Palermo con cui l’ente ha strappato il contratto di appalto stipulato con l’azienda.
“Il Tar – commenta Luigi Raimondi, avvocato dell’imprenditore – aveva già sospeso l’interdittiva e adesso l’ha definitivamente annullata. La decisione ci rende molto soddisfatti perché ha ridato giustizia a un uomo che ha denunciato i suoi estorsori e che si è visto recapitare l’interdittiva sulla base di altri elementi che i giudici hanno ritenuto del tutto irrilevanti”.
Già fra il 2009 e il 2010 un’informativa prefettizia aveva colpito uno dei soci della società coinvolgendo l’impresa. Nel frattempo però lo scenario è cambiato. Anzitutto, il socio che prima era stato causa dell’informativa, infatti, da tempo ha denunciato le estorsioni mafiose ricevute e collaborando con le Forze di Polizia ha portato all’arresto di 18 mafiosi. Non solo. I processi penali a cui era stato sottoposto si sono conclusi “favorevolmente nei suoi confronti”. E d’altronde, nel 2011 l’informativa è arrivata ed è stata positiva e nel 2014 l’azienda aveva avuto una prima iscrizione alla White list, l’elenco dei fornitori che non rischiano infiltrazioni mafiose.
Quando nel 2018, però, l’azienda ha chiesto nuovamente l’iscrizione alla White list, agli occhi dei funzionari della Prefettura sono emersi motivi sufficienti per una nuova interdittiva. Insomma, un nuovo divieto a svolgere l’attività.
Uno degli elementi che ha portato alla decisione della Prefettura era una parentela dell’amministratore unico della società. Un cugino della madre, negli anni 90, è stato condannato per fatti di mafia. Ma per i magistrati questo è stato un richiamo del tutto generico. Altri fattori addotti erano i procedimenti giudiziari dei fratelli dell’amministratore: uno dei fratelli era stato condannato per coltivazione illecita di marijuana, un altro fratello è stato imputato per falso ideologico ma poi il caso è stato archiviato. A anche questi elementi non sono stati considerati attinenti dal Tar.
Particolare attenzione avrebbe destato anche il fatto che l’azienda aveva creato un consorzio di scopo con un’altra impresa colpita da interdittiva antimafia. Anche questa circostanza però non è stata ritenuta però capaci di inquinare la ditta, il consorzio era infatti temporaneo e serviva a far possedere alle imprese le caratteristiche particolari che possono servire per la partecipazioni ad alcuni appalti.
Gli indizi però non sono finiti qui. La società aveva avuto anche un socio (uscito dall’azienda cinque anni prima) era stato sottoposto a misure di prevenzione e uno dei soci ha avuto incontri “con soggetti ritenuti controindicati”. Inoltre sono stati venduti tre macchinari a una ditta che faceva pensare a possibili infiltrazioni. Tutti questi fatti però per il Tar non sono bastati a giustificare l’interdittiva. In alcuni casi, infatti, non sono più attuali mentre in altri non provano il condizionamento dell’impresa. Che nel frattempo ha rischiato di vedersi tagliare fuori dalle commesse.
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01 Novembre 2019, 16:57