13 Luglio 2021, 16:53
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PALERMO – “La Procura di Caltanissetta, nelle indagini sulle possibili cause della strage di via D’Amelio, non è mai stata interessata a questi aspetti. Ha preferito perseguire, con tenacia e in spregio alla logica, l’assurda pista Scarantino”.
Lo scrive la Commissione regionale antimafia nella relazione, la seconda, sui depistaggi nelle indagini sull’eccidio che costò la vita a Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il lavoro è stato presentato dal presidente Claudio Fava, la deputata Roberta Schillaci e il giornalista e consulente Enrico Deaglio.
Gli “aspetti” messi da parte sono “economici”. La Commissione presieduta da Claudio Fava suggerisce una pista, certamente meno battuta, a volta addirittura “ignorata” come nel caso del rapporto denominato Oceano, inviato dalla Dia nel marzo 1994 alle procure di Palermo, Roma, Milano e Firenze.
La relazione votata ed approvata all’unanimità ripercorre i vuoti nelle indagini, le bugie di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna sulle cui rivelazioni sono stati costruiti processi divenuti carta straccia. A Scarantino hanno creduto decine di magistrati, fra pubblici ministeri e giudici. Agli investigatori palermitani era pressoché sconosciuto, eppure improvvisamente per quelli di Caltanissetta divenne un mafioso importante a tal punto da partecipare all’organizzazione della strage. Le urla dei legali degli ergastolani poi assolti furono tacciati di partigianeria difensiva da zittire. Di “macchia” per la magistratura, “la più grave” della storia, parla Deaglio. Servirebbero “parole di scuse per la famiglia Borsellino- aggiunge Fava – qualcuno dovrebbe venirci a spiegare perché non furono fatte determinate domande”.
I commissari si interrogano sul ruolo anomalo dei servizi segreti e sul perché di recente sia comparsa la figura di Maurizio Avola, pentito smemorato, che si è affrettato a smentire se stesso, sostenendo che fu solo opera di Cosa Nostra. Siamo di fronte a un nuovo depistaggio, Avola come Scarantino?
La Commissione fa domande, ma offre anche nuovi spunti. C’è una particolarità nel depistaggio su via D’Amelio, “l’assenza di qualsiasi motivazione economica”. La ricostruzione seguita per anni voleva che fosse stata “unicamente la volontà bestiale di vendetta di Cosa Nostra” a spingere Totò Riina e soci ad alzare l’asticella dell’orrore, ancora una volta dopo la strage di Capaci.
Oggi il “versante economico” in cui avvennero le stragi è una delle ipotesi prese in considerazione perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano nel mirino la potenza economica e finanziaria di Cosa Nostra. I commissari elencano una serie di dati incontrovertibili: Falcone con l’inchiesta Pizza Connection aveva colpiti gli affari che correvano lungo l’asse Sicilia-Stati Unit; aveva pubblicamente denunciato la “finanziarizzazione di Cosa Nostra (l’entrata in borsa nel gruppo Gardini); seguiva con attenzione le vicende del grande flusso di denaro che Cosa Nostra aveva investito a Milano (era stato il tema del suo incontro con la procuratrice svizzera Carla Del Ponte, già nel 1988) ed era, ovviamente, molto interessato al rapporto dei Ros su mafia e appalti”, e cioè “la conquista da parte di Cosa Nostra di una posizione quasi monopolistica nel settore del cemento e del calcestruzzo, con il coinvolgimento delle maggiori imprese italiane, da Calcestruzzi alle cooperative ravennati, da Italcementi a De Eccher, ad Astaldi, a Tordivalle, a Lodigiani, a Cogefar”.
Eppure, la procura di Caltanissetta, allora “non è mai stata interessata a questi aspetti. Ha preferito perseguire, con tenacia e in spregio alla logica, l’assurda pista Scarantino”.
Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, sentito in Commissione, ha citato un rapporto della Dia del 1993, in cui si delineava il quadro “economico politico finanziario” delle stragi, che venne inviato alle procure di Palermo, Roma, Milano e Firenze. Si tratta del “Rapporto Oceano”, mai citato ed utilizzato nelle decine di inchieste che si sono succedute.
La Commissione cita i punti essenziali del rapporto. “Personaggi importati” chiesero aiuto a Salvatore Riina in cambio della promessa di una revisione del maxiprocesso che li aveva visti condannati. La Dia tirava in ballo Licio Gelli e una parte della massoneria italiana, “appoggiati da settori dei servizi segreti e da ambienti imprenditoriali e finanziari”.
Il braccio operativo era rappresentato da esponenti dell’eversione fascista. Una rete che risaliva e operava fin dagli anni Settanta, con il golpe Borghese e la strategia della tensione. E che aveva poi continuato la propria azione con campagne terroristiche (le bombe ai treni e alle stazioni), sempre con lo stesso, identico scopo: “Difendere e accrescere la ricchezza personale dei suoi aderenti, impedire in Italia trasformazioni politiche e sociali. Lo stesso schieramento era poi sceso in campo nel caso Sindona, il banchiere per cui si era vagheggiato un golpe separatista in Sicilia. Sia nel caso Borghese sia nel caso Sindona, Cosa nostra era stata attratta all’idea di progetti eversivi dal mi- raggio di amnistie o revisioni di processi”.
Il rapporto “Oceano” si concentrava poi sulla manovalanza delle stragi, facendo notare il ruolo svolto da alcuni personaggi: “Colui che materialmente aveva confezionato i cinquecento chili di esplosivo usati per uccidere Falcone era un certo Pietro Rampulla, quarantenne. Interessante personaggio; mafioso di famiglia mafiosa di Mistretta (provincia di Messina), noto come artificiere, ma soprattutto, fin dalla gioventù, come militante politico di Ordine Nuovo. Dinamitardo provetto, fece avere, tramite intermediari, il telecomando a Giovanni Brusca, ma il giorno della strage non andò a Capaci “perché aveva da fare, cose di famiglia”.
Accanto a Rampulla venivano piazzati “Rosario Pio Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto, trafficante internazionale di armi, legato ai mafiosi siciliani operanti a Milano” e Paolo Bellini, “comparso nelle cronache come un oscuro mediatore che aveva contattato dei boss mafiosi promettendo sconti di pena in cambio del recupero di opere d’arte rubate”.
La Dia lo segnalava perché veniva citato nella lettera di addio al mondo di Nino Gioè, il mafioso di Altofonte che piazzò nel cunicolo sotto l’autostrada i panetti di tritolo confezionati da Rampulla per la strage di Capaci. Gioè si sarebbe infine impiccato nel carcere romano di Rebibbia, “lasciando uno stranissimo ultimo messaggio, in cui ci teneva a definirsi un mostro e a scagionare un sacco di persone”.
Nel rapporto Oceano la Dia affiancava al già noto rapporto tra mafia e politica un nuovo elemento: la finanza:
“Il gettito prodotto dalle attività criminali poste in essere dalle varie attività dei gruppi mafiosi non corrisponde al valore dei beni sequestrati, dei patrimoni confiscati, né delle spese che la criminalità sostiene. Questa grande ricchezza residuale non può quindi che essere nascosta nel sistema finanziario (…) Il sistema finanziario, attraverso i suoi meccanismi, ha creato negli ultimi anni strumenti giuridici ed economici che lo hanno portato ad assumere un ruolo preminente rispetto a quello industriale (…) Come è noto questo mercato è quello dove è più agevole nascondere i capitali di illecita provenienza (…) Si può ragionevolmente ipotizzare che, attraverso il mercato finanziario, la criminalità organizzata abbia potuto raggiungere anche il sistema industriale (…)”
“Ora questa ipotesi comincia a trovare alcuni supporti in indagini giudiziarie – scrivono i commissari – che potrebbero portare alla scoperta di cointeressenze economiche là dove non era neanche immaginabile fino a pochissimo tempo addietro. Non è affatto da escludere che una simile interpretazione dei fatti fosse condivisa da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.
E siamo alle conclusioni della relazione: “… parlare di via D’Amelio sapendo di non poter parlare solo di mafia è cosa che fa ancora paura. A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, si preferisce che la corda pazza di quella strage non venga sfiorata. E i depistaggi, ieri come adesso, sono lo strumento più efficace”.
Troppa gente è rimasta in silenzio: “Non una voce, in questi anni, una preoccupazione, un disvelamento sulla catena di comando che portò il Sisde ad aver un ruolo da protagonista nelle prime battute di quel depistaggio; non una parola o un dubbio sui signori in giacca e cravatta che quella domenica pomeriggio si trovavano tra le fiamme di via D’Amelio alla ricerca dell’agenda rossa.
Ma il depistaggio cominciò prima. I commissari vi includono “il progressivo e calcolato isolamento, professionale e umano, cui fu sottoposto Paolo Borsellino. Aspetti, quelli legati ai rapporti con Giammanco (Piero Giammanco, allora procuratore di Palermo) e alla carenza del dispositivo di sicurezza intorno al magistrato, che avrebbero preteso puntuali approfondimenti da parte dell’Autorità Giudiziaria ma che l’invenzione” di Scarantino oscurò del tutto”.
Il resto lo ha fatto “il senso di rassegnazione con cui in troppi hanno accolto ed accettato i silenzi di questi 29 anni, i ripetuti furti di verità, le forzature istituzionali, le ansie di carriera, i silenzi di chi avrebbe potuto dire. Come se davvero su questa storia e sulle responsabilità (non solo penali, lo ripetiamo!) che l’hanno accompagnata, occorresse rassegnarsi al silenzio”.
La seconda relazione sul depistaggio di via D’Amelio “vuole essere anche questo: una sollecitazione civile a non abituarsi all’idea che la verità ci sia negata per sempre”.
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13 Luglio 2021, 16:53