12 Febbraio 2024, 16:14
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CATANIA – Al Piccolo di Catania “Di madre in figlia”, riduzione teatrale di un testo di Marinella Fiume. La regia è di Gisella Calì brillante e originale quanto modesta e innovativa, interprete principale la grande Guia Jelo. Certamente è stato uno spettacolo che sarebbe stato degno di un più grande teatro catanese. La provenienza dell’opera teatrale cioè il testo, è preso fedelmente dal libro “Di madre il figlia Vita di una guaritrice di campagna” pubblicato nel 2014. E’ un libriccino tutto bianco e senza nessuna immagine, metaforicamente una piccola farfalla bianca anche perché l’edizione è proprio “Le farfalle”. Ormai del libro ne esistono poche copie, ma certo andrebbe rieditato.
Comprai il libro di Marinella perché mi colpì la lettura della quarta di copertina “Signorina, io ste cose ce le racconto, ma lei deve insegnarsele a memoria, a poco a poco, perché ste cose non si possono scrivere, ma solo raccontare a voce…”.
E’ un abbrivio. La storia che scrive Marinella è la vita raccontatale in prima persona dalla centenaria Razzia ed è strettamente legata alla vita di Lunarda sua maestra conciaossa, maga e guaritrice. Razzia racconta alla Fiume “quelle cose” che si tramandano solo oralmente, che non è facile scrivere e che la Fiume invece riesce poeticamente e sottovoce a farlo, con un linguaggio speciale misto di parole antiche e siciliano vero. Gliele racconta perché vuole che si conoscano e che non se ne perdano tracce e memoria. Gliele racconta perché sono radici di vita ferme nella sua mente. Le lunghe poesie- preghiere di santi o filastrocche sono in un siciliano particolare e non sappiamo chi le abbia scritte ma in rime più o meno acerbe sono frutto di gente semplice e forza dell’arte che quando spinge la mente umana non trova frontiere. Quelle false rime mi riportano ai murales delle chiese rupestri e ai disegni semplici ma veritieri delle grotte preistoriche.
Italiano puro la bella introduzione “Rendere visibile e porre al centro un percorso ai margini” nella quale l’autrice spiega la difficolta che ha incontrato nello scrivere il libro ma nello stesso tempo coglie l’importanza di ciò che le è stato rivelato, il valore dei personaggi e delle tradizioni popolari da tramandare, l’alone del mistero che gira intorno alle vecchie guaritrici, il valore sociale, culturale, morale e letterario del testo che scriverà. Su tutto la capacità che ha sempre avuto questa scrittrice nel portare in auge, soprattutto quando nessuno lo faceva, il valore delle donne, di tutte quelle donne che chiama “donne di fora” spesso disprezzate ma che sono state per natura, per passione, per talento, per volontà e senza neanche saperlo, costruttrici del nuovo mondo al femminile.
Lunarda, nomen omen (incantata dalla luna?) vecchia conciaossa e guaritrice nata a Macchia di Giarre nel lontano 1842, a momenti quasi duecento anni fa diventa, in punta di piedi, unica maestra- madre di Razzia, rimasta orfana di padre e di madre, la educa per più di vent’anni e le trasmette il suo sapere che è conoscenza della medicina del popolo, delle erbe buone, delle preghiere giuste, della fede vera ma le trasmette soprattutto oltre il sapere, “il potere della guarigione”.
Dove risiede il valore di una lettura così antica e incredibile, fuori dal nostro tempo ma indicativa di un mondo esistito realmente e ancora vicino al nostro, risiede nel mistero e nella fascinazione del credere e del non credere, del reale e dell’irreale, del conscio e dell’inconscio e nello stesso tempo nella grandezza di scienze e neuroscienze che tuttavia ancora poco hanno svelato su questi misteri.
Con il linguaggio semplice, arcaico e siciliano di Razzia che Marinella traduce in un italiano semplice scorrevole e poetico, con i versi in siciliano che nella foga di avere come intento la guarigione sono vere e proprie antiche preghiere, rivive questo mondo scomparso.
Felice di avere ritrovato il libro, dopo la riduzione teatrale vista pochi giorni fa, la medichessa che è in me, me lo fa guardare con altri occhi perché io con malattie, guarigioni e morti ho avuto tanto a che fare. A Linguaglossa, paese molto vicino al triangolo di mondo descritto dall’autrice, dove da giovane ho lavorato per tanti anni, io delle guaritrici sentivo parlare come di un’aura di vento che le nonne mi venivano a raccontare e se sedavo i mal di pancia con gocce di farmaco, spesso i vermi li avevano evacuati con gli impiastri delle guaritrici. I calcoli renali le nonne, mi dicevano di averli mandati via con i decotti dei fiori di fichidindia e l’artrosi curata con le ortiche mascoline e ai bambini con la parotite mettevano su collo e guance la pelle del coniglio e a quelli con la pertosse facevano odorare il puzzore delle stalle con le mucche. E chissà quanto malocchio tolto ai bimbi che non riuscivo a curare subito.
E che poesia questi racconti di decotti fatti riposare “…dietro la porta di casa, al sereno”. Non guardiamo più il “sereno che cade dal cielo di notte”. Le limpide fredde notti stellate di una volta, con la luna piena e il chiarore che scendeva fino a terra fino a posarsi sui nostri capelli e sulla pelle del nostro volto non esistono più, troppe luci ci distolgono da questi racconti che anche se lontani sono ricchi di incantata, immortale poesia.
Questa la fine del libro “Ora che le raccontai tutto e le diedi il potere…le raccomando che queste cose le deve usare solo per fare bene al prossimo. Perché così è scritto. Però, se vuole, le può insegnare a sua figlia, così non si perdono e restano tramandate eternamente. Sia fatta la volontà di Dio”
(di Gemma Incorpora Lucenti)
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12 Febbraio 2024, 16:14