Dieci verità (scomode) | sull’economia siciliana

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30 Marzo 2014, 08:53

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Partiamo da una premessa. Dopo la Calabria, anche la Sicilia è scomparsa dai “radar” dell’informazione nazionale. Quando se ne parla ci si riferisce alla trattativa Stato-mafia che avrebbe avuto il terreno di coltura nella nostra regione, agli effetti negativi dell’autonomia, ai sistemi criminali che la innervano. Per responsabilità comune ormai viviamo, sembrerebbe, in una Sicilia “a perdere”, da commissariare, se fosse possibile da “vendere” a qualche sceicco o ai fondi sovrani della Cina per azzerare (?) il debito pubblico italiano. Non esiste più, con rarissime eccezioni, una “firma” siciliana, un politico siciliano di riferimento oltre Alfano, uno scienziato che faccia scuola. Gli unici personaggi a tutto tondo nell’immagine della Sicilia sono i magistrati. Qualcosa che dovrebbe pur far riflettere. Così come è triste che il nostro personaggio letterario più conosciuto sia un commissario di polizia e non un maestro di scuola. Da un momento all’altro attendiamo una voce autorevole che esorti i giovani, tutti i giovani, a fuggire dall’isola.

A fronte di questo sfacelo emergono nuove soggettualità: gli imprenditori, i “piritolli” dell’anti-mafia (Buttafuoco), i rivoluzionari, le “tricoteuses”, quelle che durante la rivoluzione francese lavoravano a maglia assistendo con soddisfazione quasi carnale a decapitazioni, miasmi, deportazioni di massa. Sullo sfondo, un modello di sviluppo a tasso zero sul quale è bene evidenziare talune verità scomode.

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1. I dati sulla disoccupazione e sulla povertà non rappresentano la realtà. Se fossero veri la Sicilia intera sarebbe una piazza ribollente di rabbia.
2. Il sommerso intrecciato con l’evasione e l’economia criminale rappresentano un’economia parallela che falsifica i dati ufficiali e che giustifica situazioni al limite dell’assurdo come quella di lavoratori che dichiarano di non percepire salario da venti mesi.
3. Non esiste una volontà esplicita di combattere il sommerso e l’evasione. Una radicale scomparsa di questi due fenomeni, questo si, accenderebbe le piazze dove confluirebbe un ceto interclassista: dagli acquirenti di SUV al venditore di babbaluci.
4. Nel sommerso e nell’evasione, occorre riconoscere, anche se non è “politicamente corretto”, ci sono tante piccole e medie imprese che, attraverso varie combinazioni (dal nero al caffelatte) cercano di mantenere profitti accettabili e pagare salari non di fame. Come pure esistono, spesso senza rappresentanza, imprenditori onesti che andrebbero premiati ed esaltati.
5. Vengono sempre invocati finanziamenti per le imprese locali. E’ bene sapere che su 100 euro erogati per l’impresa locale oltre cinquanta emigrano subito oltre stretto . Il problema dell’industria siciliana sta, insieme ad altri fattori, nella sua “dipendenza” per quanto riguarda approvvigionamenti, logistica, collocazione del prodotto. I cosiddetti “distretti” sui quali si esercitano da anni gli Assessori all’Industria sono , nel migliore dei casi, pura espressione di buona volontà.
6. Tutti riconoscono alla Sicilia due risorse competitive: cultura e turismo. Lascio ai lettori il giudizio sulle strategie di valorizzazione messe in campo dalle istituzioni. Da anni ricerche rigorose ci ricordano che la Sicilia spende per pubblicizzare cultura e turismo cifre di gran lunga superiori rispetto a quelle di altre regioni senza ottenere risultati competitivi.
7. Manca totalmente, per volontà o per ignoranza, una politica del credito che abbatta differenziali di interesse e renda più elastici criteri di riconoscimento del merito bancario. Pensare che alla domanda di finanziamento di un’economia come quella siciliana possa provvedersi solo con l’Irfis, l’Ircac e la Crias significa assimilare la Sicilia ad una “regione delle banane”.
8. L’intreccio tra politica clientelare ed economia risulta devastante. La reazione furiosa dei partiti ad un tentativo di ancorare i sussidi per i precari ad un loro livello di reddito familiare lascia molto da pensare. Negli esempi fatti (un precario che perdeva il sussidio perché la madre godeva di un’indennità di accompagnamento) si colgono eccezioni che potrebbero certo essere riconosciute come tali. Ma siamo certi di trovarci, nella ricognizione del reddito familiare dei precari, solo dinanzi ad eccezioni? Tenendo presente che un eventuale risparmio realizzato in questo settore, applicando regole di buon senso, poterebbe essere reinvestito nel settore stesso aumentando i sussidi ai precari che non godono di redditi familiari supplementari. E che, tema di cui nessuno colpevolmente parla, godranno, alla fine della loro vita lavorativa, solo di una pensione sociale minima.
9. Viene difficile in una ricognizione sulle criticità dell’economia siciliana, ovviamente sommaria e parziale, esprimere un giudizio sul ruolo passato e presente dei sindacati. Ancor più quando nel “cursus honorum” di un sindacalista è prevista l’elezione a deputato regionale. Si possono riconoscere buone intuizioni, intenzioni, prediche. Ma, come del resto sul piano nazionale da qualche tempo, nessun ruolo decisivo di cambiamento e innovazione.
10. Appare grottesca la ricerca di un assessore al Bilancio esterno alla Sicilia. Attesto che nelle Università siciliane ci sono fior di tecnici in grado di gestire un bilancio , sia pure al limite del default, così, come credo, nei partiti, c’è da chiedersi il perché di questo orientamento. Creare un sorta di complicità con il Governo su irregolarità che attendono di essere sanate? Si pensa che nessun siciliano sia in grado di resistere alle pressioni sulla redistribuzione delle risorse? Si vogliono scaricare su un soggetto “altro” responsabilità di scelte che minerebbero il consenso clientelare? Se qualcuno deve spegnere l’interruttore meglio che la mano non sia siciliana? Una rapida conclusione riprendendo un aforisma di Bufalino: “Forse sta per finire il tempo in cui si preferiva un tepore mediocre in Sicilia come temperatura ideale per sopravvivere”.

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30 Marzo 2014, 08:53

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