17 Ottobre 2010, 00:17
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I funerali dei sucidi sono sempre un po’ più tristi degli altri, perché oltre al naturale dolore provocato dalla morte ci sono i dubbi, le domande e forse anche la rabbia di coloro che si mettono a riflettere davanti alla bara di chi ha volontariamente messo fine alla sua vita. E sono tristi i funerali dei sucidi perché costringono i preti a barcamenarsi nelle loro omelie tra una pietà a buon mercato e quella asettica frase del Catechismo della Chiesa Cattolica che dice che il suicidio è “contrario all’amore del Dio vivente”. In questo turbine di dubbi e di domande, nell’indifferenza dei benpensanti resta inascoltata la domanda dei corpi ormai muti, chiusi nelle casse di legno che continuano a chiedere quell’attenzione e quell’affetto che in vita, quando la loro carne era rosea e calda, non avevano saputo chiedere o avevano chiesto timidamente. Il carcerato, il giovane precario, la donna depressa, il malato terminale non volevano sprecare il dono della vita ne tantomeno rifiutare l’amore di Dio ma con il loro estremo gesto forse volevano solo protestare un’ultima volta contro una vita ingiusta e contro l’indifferenza che troppe volte li aveva circondati. Sono uomini e donne i suicidi che non hanno saputo portare a termine la loro via Crucis, che non hanno raggiunto il Calvario ma sono crollati prima sotto il peso della propria croce. Per loro probabilmente è stata fatale la mancanza di un Cireneo che, ancorché costretto, li aiutasse sulla via della croce. Quel Simone di Cirene, che compare inaspettato nei quadretti delle vie crucis delle nostre chiese ad aiutare il Cristo soffrente, poteva essere ciascuno di noi che inutilmente piangiamo, ci interroghiamo e ci arrabbiamo davanti a chi si è tolto la vita.
Di queste esistenze disperate e solitarie ci resta una bara che non chiede solo pietà cristiana ma chiede ancora una risposta a quella domanda sul dolore e la sofferenza a cui i fortunati di questa vita non sanno rispondere, a cui i filosofi rispondono con un’altra domanda e a cui alcuni teologi hanno risposto con l’inferno o alcuni secoli di purgatorio. Forse la risposta a questa domanda accorata di senso e di affetto di coloro che non ce l’hanno fatta arriverà solamente da Dio, quel Dio che in vita hanno invocato e che però inspiegabilmente si è chiuso in un assordante silenzio. Quando vedranno Dio in faccia i vinti di questa vita tra i singhiozzi e le lacrime rifaranno la loro domanda e Dio, che non può essere offeso dalla sconfitta delle sue creature, risponderà loro solamente con il suo abbraccio perché si manifesterà loro quale Dio pieno di misericordia, El male’ rahamim secondo l’Antico Testamento dove rahamim più che misericordia indica l’amore viscerale materno, il seno stesso della madre. La tenerezza di Dio sarà la risposta eterna al dolore e al fallimento perché come cantava Fabrizio De Andrè, in uno di quei suoi acuti dell’anima, il Dio misericordia il suo bel paradiso lo ha fatto soprattutto per chi non ha sorriso.
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17 Ottobre 2010, 00:17