06 Giugno 2017, 05:38
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PALERMO – Il “diritto a morire dignitosamente” va assicurato ad ogni detenuto. Anche se si chiama Totò Riina, il più sanguinario dei padrini di Cosa nostra.
Era solo una questione di tempo, ma dopo la morte di Bernardo Provenzano, avvenuta nel luglio scorso, era inevitabile che si riproponesse il tema alla luce degli 86 anni e delle patologie di cui soffrirebbe Riina. Lo spessore criminale è fuori discussione – Riina ha seminato morte e terrore come nessun altro – ma la Cassazione ha disposto che si debba verificare se il capo di Cosa nostra possa ancora considerarsi pericoloso.
Esiste una legge che prevede il differimento e cioè il rinvio dell’esecuzione della pena quando il condannato è in condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario. I supremi giudici per la prima volta hanno accolto il ricorso del difensore di Riina, l’avvocato Luca Cianferoni, che chiede il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare.
Un tumore ai reni, una situazione neurologica altamente compromessa, una grave cardiopatia: Riina in queste condizioni può considerarsi un soggetto pericoloso da tenere detenuto al carcere duro?
Il tema resta spinoso perché segna il confine fra giustizia e vendetta. “Vendetta di Stato” fu, infatti, il termine utilizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane per commentare il decesso di Provenzano. Allora fu il ministro della Giustizia, su proposta della Direzione nazionale antimafia, a prorogare a Provenzano il regime del 41 bis perché lo riteneva un soggetto di “elevata pericolosità”. Le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, titolari dell’accusa negli ultimi procedimenti a carico del boss, dopo tanti dinieghi, alla fine avevano dato parere favorevole alla revoca del carcere duro. Il Tribunale di sorveglianza decise che Binu non meritava alcuna deroga perché “in un attimo di lucidità” avrebbe potuto “impartire direttive criminali”.
Poco prima che morisse arrivò un nuovo no dei giudici milanesi della Sorveglianza. I suoi “trascorsi criminali” e il “valore simbolico del suo percorso criminale” lo esponevano, “qualora non adeguatamente protetto nella persona” e “trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica”, ad eventuali “rappresaglie connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso”, di cui era stato “capo fino al suo arresto”. “Nessuna condizione di contrasto con il senso di umanità si realizza con la permanenza” di Provenzano, aggiunsero i giudici, nel reparto per i detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano.
Per il caso di Riina la parola passa nuovamente al Tribunale di sorveglianza che non ha ancora fissato l’udienza per discutere il ricorso. Dovrà emettere un provvedimento che tenga conto delle indicazioni della Cassazione, in bilico fra giustizia e vendetta. Un provvedimento che rimarcherà le distanze. Delle due l’una: o grideranno allo scandalo coloro i quali sono fermamente convinti che Riina debba restare in carcere fino all’ultimo istante della sua vita oppure resteranno scontenti coloro secondo cui, lo Stato ha un solo modo per distinguersi dalla mafia: applicare le leggi di uno stato di diritto. Nonostante sia il più feroce dei mafiosi, abbia distrutto intere famiglie, popolato la nostra terra di orfani e vedove e sparso il sangue di innocenti.
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06 Giugno 2017, 05:38