Catania

Strage Borsellino, depistaggio senza colpevoli: prescrizione

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12 Luglio 2022, 21:09

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PALERMO – La calunnia ci sarebbe stata. Ma chi la commise non lo fece per agevolare Cosa Nostra. O, molto più probabilmente, non era cosciente che ciò stesse avvenendo. Il risultato è che, senza l’aggravante di mafia, la calunnia semplice è andata in prescrizione.

Nessuna condanna al processo sul cosiddetto depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio celebrato davanti al tribunale di Caltanissetta. Prescrizione per Mario Bo (l’accusa aveva chiesto undici anni e nove mesi), dirigente della polizia di Stato, e per il funzionario Fabrizio Mattei (richiesta di 9 anni e sei mesi). Assolto l’altro funzionario, Michele Ribaudo. Anche per lui erano stati chiesti 9 anni e mezzo. Gli imputati erano difesi dagli avvocati Giuseppe Seminara, Giuseppe Panepinto e Riccardo Lo Bue.

Ed è una sentenza destinata ad avere strascichi polemici. Forse più per le responsabilità non punite che per l’esito processuale. Perché resta l’amarezza di un depistaggio che c’è stato senza che siano stati individuati i veri responsabili. Innanzitutto per il tempo che ha inesorabilmente inciso su tutta la vicenda.

Erano tutti accusati di avere inquinato le indagini sulla strage di Via d’Amelio creando a tavolino una falsa verità sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque agenti della scorta. Ci sarebbe la loro mano dietro quello che è stato definito “il più clamoroso depistaggio della storia giudiziaria italiana”.

Solo ed esclusivamente la loro mano, sarebbe il caso di dire. Nessuna responsabilità da parte dei magistrati. Due sono finiti sotto inchiesta, ma la loro posizione è stata archiviata. Tante anomalie, ma “i pm non ebbero colpe”. Al di là dei risvolti penali, nessuna toga ha chiesto, semplicemente, scusa.

Le conseguenze del depistaggio furono due. La prima, diretta, la condanna all’ergastolo di 8 innocenti. Sono loro i calunniati. Il processo crollò quando Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, smentì Vincenzo Scarantino. Come si è potuto credere a un malacarne di borgata che diceva di avere partecipato alla preparazione della strage assieme ai più sanguinari capimafia? Eppure è accaduto. Una schiera di pubblici ministeri e giudici di tre gradi di giudizio hanno preso per oro colato le sue fandonie.

L’imputazione per i tre poliziotti era di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia: la falsa ricostruzione dell’eccidio avrebbe nascosto le responsabilità nella morte del giudice dei mafiosi della cosca di Brancaccio.

Ed ecco la seconda, indiretta e gravissima, conseguenza: la verità sulla strage è rimasta parziale. Lo Stato non ha garantito la giustizia che meritano le vittime e i loro parenti. L’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei figli di Poalo Borsellino – Manfredi, Lucia (sposato con Trizzino) e Fiammetta – lo ha sottolineato nel suo appassionato intervento. “I pm non si sentano assolti”, ha detto.

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“Si sono spaventati? Avevano paura di buttare giù tutto l’edificio che stavano tirando su? Di fronte a certe storture procedurali – ha continuato – rimango allibito. Le mie parti civili devono leccarsi non solo le ferite della strage di via D’Amelio ma anche del depistaggio. Abbiate pietà da questo punto di vista. Si poteva fermare quel depistaggio”.

Sì, si poteva fermare. Ed invece la pubblica accusa non ha mostrato segni di cedimento, non si è discostata da una ricostruzione. Eppure ci furono magistrati che stigmatizzarono “il parto della fantasia di Scarantino” e boss della cupola, pentiti e affidabili, che di fronte alle sue bugie reagirono con sberleffi. Per anni i confronti sono rimasti nei cassetti. I verbali vennero depositati solo quando i processi erano già iniziati.

A rappresentare l’accusa sono stati il pm Stefano Luciani, che ha istruito il processo, affiancato nelle ultime udienze dal neo procuratore Salvatore De Luca. Nel corso della requisitoria il magistrato, che ha raccolto e verificato le dichiarazioni di Spatuzza, aveva ricostruito anni di menzogne, dichiarazioni estorte con le minacce e con la violenza.

Il convitato di pietra del processo è stato Arnaldo La Barbera, capo del pool che indagò sulla strage e mente, secondo l’accusa, del clamoroso depistaggio. Non si è potuto difendere perché è morto nel 2002. È al solo La Barbera che il tribunale adosserà le responsabilità? Solo le motivazioni potranno chiarirlo.

Perché Scarantino avrebbe dovuto raccontare una montagna di bugie dopo essere stato indottrinato? Secondo l’accusa, per nascondere altre responsabilità mai venute a galla. “La versione che dà Vincenzo Scarantino e quella che rende Gaspare Spatuzza sulla fase esecutiva della strage di via D’Amelio sono pressoché sovrapponibili. Ciò che non troverete nella versione di Scarantino – aveva sottolineato Luciani – è la presenza dell’uomo all’interno del garage in cui venne imbottita di tritolo l’auto usata per la strage non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all’associazione mafiosa”. Coprire la partecipazione, dunque, di terzi estranei a Cosa nostra: il movente del depistaggio sarebbe stato questo.

Di ricostruzione “inaccettabile” contro gli imputati aveva parlato l’avvocato di Giuseppe Seminara, legale di Ribaudo e Mattei. “Gli imputati hanno un passato, hanno una dignità, sono poliziotti, hanno una loro storia che comprende tantissime azioni svolte per contrastare la criminalità organizzata”, disse il legale nel corso dell’arringa. Come si può addossare la responsabilità a figure che occupavano i gradini bassi della scala gerarchica? Ecco perché ha parlato di “fallimento del sistema”.

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12 Luglio 2022, 21:09

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