Dottorato di Catania:| un caso di “Mala Università”? - Live Sicilia

Dottorato di Catania:| un caso di “Mala Università”?

Una laureata dell’Ateneo catanese manifesta dubbi sui criteri di selezione del 29° ciclo del Dottorato di Ricerca in “Studi sul Patrimonio Culturale”. Riceviamo e pubblichiamo.

LETTERA IN REDAZIONE
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5 min di lettura

Gentile Redazione,

sono una laureata dell’Ateneo catanese che vuole denunciare ciò che si sta consumando in questi giorni tra le aule del Monastero dei Benedettini per le selezioni del 29° ciclo del Dottorato di Ricerca in “Studi sul Patrimonio Culturale”.

Dopo aver letto l’articolo della collega (“Fuori dall’esame di dottorato. Per cosa ho pagato 100 euro?) ho deciso di contattarVi per far sentire la mia voce in merito a questa situazione, tanto spinosa quanto sgradevole, per sfogare un po’ di amarezza.

Sebbene concordi con la collega nel lamentare l’onerosità dell’obolo richiesto affinché la Commissione incaricata scartabellasse quattro carte, questo mio intervento – forse un pizzico più malevolo – vuole aggiungere ulteriori perplessità.

La prima cosa sospetta, di certo, è la mancanza di una griglia di valutazione di pubblico dominio, una lacuna che riguarda tutti i Dottorati dell’Ateneo. L’inesistenza di una griglia unica ha fatto in modo che emergessero valutazioni dei titoli molto diverse da parte dei singoli Dipartimenti. Faccio un esempio concreto: in Giurisprudenza il voto attribuito alla laurea conseguita viene valutato fino a 20/60, nel Dipartimento di Lettere (D.I.S.U.M.) fino a 5/60; in Giurisprudenza il Curriculum Vitae ha un voto massimo di 5/60, mentre la Commissione del D.I.S.U.M. ha attribuito fino a 15/60.

Al di là delle modalità di ripartizione dei punteggi per ogni singola voce (laurea, CV, ecc.), il mio dubbio maggiore sta proprio nel fatto che la poca trasparenza abbia alla fine favorito persone, non solo più titolate com’è giusto che sia, ma guarda caso con rapporti lavorativi proprio con il Dipartimento. Attraverso i profili pubblicati on-line da alcuni candidati è emerso che cinque dei nove hanno incarichi presso il Dipartimento, tre dei nove hanno già conseguito un Dottorato presso il Dipartimento, tre non hanno la certificazione di lingua straniera prevista dal Bando (in questo caso si parla, però, anche di «autocertificazione»), un candidato ha contatti con l’IBAM (una borsa è stanziata proprio dall’IBAM-CNR), di tre non ho trovato molte informazioni. Inutile dire che dopo aver strabuzzato gli occhi di fronte a questi dati, sono sorti dei sospetti maliziosi.

Ero già consapevole che non avrei mai potuto totalizzare il massimo in questa prima valutazione e che vi fossero colleghi più titolati ai quali è doveroso attribuire un punteggio superiore, ma se il Dottorato è un titolo da conseguire Post-Lauream dovrebbe significare che un neolaureato dovrebbe, non dico vincerlo, ma quanto meno avere la possibilità di provarlo. Consapevole della remota possibilità di vincerlo ho deciso ugualmente di tentare, in primo luogo perché dopo tanti anni di sacrifici sono ancora senza un lavoro – quindi questo era un modo per impegnarmi temporaneamente in qualcosa e fare comunque un’esperienza formativa -, in secondo luogo perché fare ricerca è sempre stato il mio sogno e, infine, per non avere rimorsi. La cosa che di certo mi ha lasciata sgomenta è che con tre lauree conseguite con il massimo dei voti, un’abilitazione all’insegnamento, una pubblicazione e un concorso vinto a soli 26 anni, per questa Commissione io, come tanti altri validi colleghi, non sia nemmeno degna di sostenere lo scritto.

Di certo le Pubblicazioni e il Progetto di Ricerca sono le voci che hanno pesato maggiormente nel computo, ma è proprio attraverso le ricerche condotte durante il Dottorato che si possono fare quelle pubblicazioni che consentono di accrescere il proprio curriculum. Mi sorge spontanea una domanda, se si consente solo a gente plurititolata di fare le prove successive – alcuni candidati hanno già un Dottorato alle spalle e quindi molte pubblicazioni -, un neolaureato – al quale non è consentito affrontare le prove che gli facciano vanamente sperare di vincere il primo – quali carte dovrebbe giocare?… Vorrei suggerire, a tal proposito, l’immagine del cane che si morde la coda.

Varie volte mi è stato detto – più o meno velatamente – che tali concorsi abbiano nome e cognome ancor prima di essere banditi, per tale ragione, dunque, credo si debba spostare l’attenzione sul fulcro della questione. Parlo del nepotismo, una delle leggi non scritte del mondo accademico, del “passi perché sei portato da…, perché sei parente/amante di…”. Ritengo che questo sia un vero e proprio atto mafioso, di quella mafia pulita che non seppellisce tra i pilastri di cemento, ma che uccide i sogni portandoci ad uno stato di rassegnata accettazione (vorrei permettermi di ricordare a tal proposito il collega Norman dell’Università di Palermo). Coloro che si lavano le mani di fronte ad una situazione così aberrante, anche se non si calano personalmente nella cloaca maleodorante, sono rei come chi perpetra una simile meschinità, perché con il silenzio e le spallucce alzate si rendono complici di questo perverso meccanismo, lo avallano consentendo che vengano esclusi, sempre e comunque, quei meritevoli senza santi in paradiso a cui votarsi.

Del resto viviamo nell’Italia dei concorsi truccati e degli eterni ricorsi. Anche io avrei potuto fare ricorso, ma non lavoro e non posso permettermi di pagare un avvocato, e poi un ricorso rimane rinchiuso tra le aule dei tribunali, tra la burocrazia farraginosa e i tempi elefantiaci della giustizia. Auspico, piuttosto, che questo intervento faccia riflettere quanti conservano ancora un briciolo di integrità e di onestà intellettuale.

Sono conscia che queste mie parole saranno portate via dal vento, che non si possa lottare contro il “sistema”, perché in fondo non è l’Italia che non funziona, è la mentalità degli italiani. Nessuno, quindi, si stupisca o si indigni se i giovani decidono di darsela a gambe dal Bel Paese per cercare di trovare lidi lontani in cui poter riprendere fiato e in cui poter respirare un’aria meno intrisa di questo tanfo nauseabondo.

 


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