23 Settembre 2012, 02:41
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PALERMO- Un giorno il Padreterno si svegliò di buonumore e disse all’Arcangelo Gabriele: “Oggi mi sento proprio bene. Voglio creare qualcosa di splendido, qualcosa di cui andare orgoglioso nei secoli dei secoli”. Prese un pezzo di terra e la lanciò laggiù, proprio al centro del Mediterraneo. Poi la ritagliò a forma di triangolo; da una parte ci mise un vulcano innevato e dall’altra un giardino immenso del colore dell’oro. Non contento, riempì di verdi boschi quella terra benedetta e le donò una collana di perle a cingerle i fianchi. Quando ebbe finito di creare il suo capolavoro, il Padreterno si volse a guardare verso il basso e compiaciuto esclamò: “Sono proprio contento: di cose belle ne ho create tante, ma nessuna è bella come questa”. Dopo aver assistito alla scena, il saggio San Giusto (cui come è a tutti noto mancava un dito) si indignò ed ebbe un moto di ribellione: “Perdonami, Signore. Ma tu hai commesso una grave ingiustizia. Tu hai creato i deserti e i ghiacciai, le tundre e le steppe. E non è giusto dare tanta bellezza a una terra sola”. Il Signore, dall’alto della sua sapienza, ci pensò su un attimo e rispose: “Forse hai ragione, Giusto. Adesso pongo rimedio. Adesso creo i Siciliani”.
Quando mi hanno invitato a contribuire allo speciale di questa domenica, ho subito ripensato a questa amara storiella che un amico mi raccontò tanti anni fa. Come potrei odiare Palermo, la città dove sono nato e dove ho trascorso gran parte della mia vita? Come dimenticare la nostalgia canaglia che pesava come un macigno sul mio cuore quando dovetti lasciarla per costruire un pezzo del mio futuro in America ? E come cancellare l’emozione di quel Nostos tanto atteso, quando il mio aereo passò sopra l’isolotto e riconobbi, affacciato a uno degli oblò di sinistra, quei crinali così arsi e familiari? Eppure, a pensarci bene, qualcosa cominciò a smuoversi nelle mia budella solo qualche giorno dopo il mio ritorno. Mi ero ormai abituato a guidare come si dovrebbe: seguendo la linea di cammino senza improvvisi salti di corsia, fermandomi dove un cartello m’imponeva di farlo e posteggiando solo dove si poteva. Tornato a casa, mi accorsi che litigavo con tutti, ribellandomi a quello che era stato il mio standard di guida fino a pochi anni prima e che si era ormai rivelato per ciò che era: un concentrato di tracotanza, furberia ed incivile individualismo.
Guardavo attonito quella ressa ormai straniera davanti allo sportello di un ufficio postale o di una banca quando ancora gli elimina-code o le “strisce di rispetto” non si erano eretti a dimesso tentativo di dare una parvenza di civiltà alle abitudini dei miei concittadini. Osservavo incredulo la sporcizia delle strade avendo negli occhi la scena delle bande di ragazzini che raccoglievano in strada le lattine vuote da portare, al cambio di un nickel per ciascuna, ai centri autorizzati di raccolta. E poi, a rafforzare dentro me, cresciuto a pane e panelle, quel sentirmi straniero in patria, quel succedaneo d’inglese dei cartelli all’aeroporto (Informations Desk) o all’ingresso del parco della Favorita (Slow speed). Ma dove sono nato ? Ma come ho fatto a non capire fino ad ora ?
Oggi che proprio tutto, dalle illusioni alle delusioni, è più tenue posso dire ancor di meno di odiare la mia città. Provo solo una rabbia mista a rassegnazione per ciò che potrebbe essere e non è. Per quel parco così grande a metà tra un autodromo e un postribolo a cielo aperto che nessuno si decide a far tornare quel che è: solo un parco. Per quel mare che a Palermo non si vede quasi da nessuna parte e che d’estate non si vede neppure dalla spiaggia. Per quel centro così congesto dove sopravvivono le rovine per non far nascere i parcheggi, che tanto nessuno li userebbe lo stesso. Per quei binari del tram che un giorno c’erano e che oggi nascono dove non servono. Per quei marciapiedi trasformati in piste da slalom tra cacche e rifiuti. Palermo, la mia nobilissima madre vestita da stracciona, che proprio non so odiare. Eppure, a pensarci bene, c’è qualcosa che resiste al disincanto e alla saggezza consolatrice dei miei anni non più verdi.
C’è qualcosa di Palermo e di noi palermitani che non finirò mai di detestare con tutto me stesso. Ed è quel nostro lamentarci di tutto e per tutto non essendo mai disposti a far qualcosa, anche di piccolo, per cambiare. Quel nostro continuo ergerci a giudici severissimi delle nostre miserie avendo cura di non porre mai noi stessi sul banco degli imputati. Quel nostro eterno pretendere senza dare. Quel nostro odiare Palermo senza amarla nel profondo.
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23 Settembre 2012, 02:41