19 Luglio 2009, 00:56
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Ricorda l’odore della strage, la puzza di benzina dalle auto sventrate. Ricorda Paolo Borsellino come “un uomo normale che faceva il suo lavoro con onestà e passione, ma un eversivo nella Palermo di quel periodo”.
Attilio Bolzoni, firma de “La Repubblica” che da più di trent’anni osserva e racconta la Sicilia, il cronista che aveva descritto non più di due mesi prima la scena “libanese” di Capaci e che sta firmando con Francesco Viviano i pezzi relativi alle indagini sulle stragi, quel 19 luglio del 1992 non scrisse: il quotidiano non sarebbe andato in edicola il giorno dopo. Tuttavia, a venti minuti dall’esplosione era comunque sul posto.
Cosa ricorda di quel giorno?
“Fu un amico ad avvertirmi, mi disse che c’era stata un’esplosione in centro. Più del fumo, dei brandelli umani contro il palazzo e sull’asfalto, mi viene in mente l’odore che c’era in via D’Amelio quel giorno, la puzza di benzina che arrivava dalle auto sventrate. Quello che subito mi colpì fu la presenza di troppe persone sul luogo. L’area non fu transennata e in quel caos chiunque poteva portare via reperti preziosi, come la famosa agenda rossa di Borsellino”.
Un scena “libanese” come quella di Capaci…
“Sì, ma in via D´Amelio ho avuto paura, proprio perché erano passati appena 57 giorni dall’uccisione di Falcone. E tutti a Palermo, anche i muri, sapevano le stragi non potevano essere il frutto di una logica puramente mafiosa, soltanto mafiosa”.
Chi era Paolo Borsellino?
“Ho avuto un rapporto molto intenso con lui, direi quasi un amico. Borsellino era un uomo normale, perbene, che faceva il suo mestiere con passione e con onestà. Normale come tutta la sua famiglia del resto. Voleva solo vivere meglio in questa terra. Una normalità che in quegli anni era un’eversione…”.
Perché?
“Perché erano pochi i magistrati che prima di Falcone e Borsellino facevano il loro lavoro correttamente. Il palazzo di giustizia era un inferno, con magistrati che aggiustavano processi per aiutare gli amici. Ricordiamoci che nei cinquanta anni precedenti tutti i mafiosi venivano assolti con la stessa formula: insufficienza di prove”.
A lei ed a Saverio Lodato de L’Unità Borsellino rilasciò un’intervista molto particolare nel 1988. Quella in cui, dopo la nomina di Antonino Meli come consigliere istruttore di Palermo al posto di Falcone, annuciava la morte del pool antimafia.
“Fu un’intervista in piedi, con la moglie che lo tirava mentre lui parlava, in uno stanzone enorme a Marsala, dove allora Borsellino era procuratore. Ricordo la sua Lacoste rosa, la sigaretta accesa. Volevamo approfondire delle dichiarazioni che aveva appena reso in una conferenza ad Agrigento. Ci disse:`Così mi consumate’. Ma parlò, forse perché, dopo aver tentato tutte le strade a livello istituzionale per evitare lo smantellamento del pool, non riusciva più a trattenersi. Ci disse chiaro e tondo che la lotta alla mafia nessuno voleva farla, che la gestione di Meli, con la divisione delle inchieste, avrebbe reso quasi impossibile il contrasto al fenomeno. Incredibilmente, per una settimana nessuno replicò”.
E poi?
“Rischiò un provvedimento disciplinare da parte del Csm ed intervenne il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Lo accusarono addirittura di aver parlato con due persone indagate, perché Lodato ed io eravamo stati arrestati per rivelazione di segreto d’ufficio”.
E oggi, dopo 17 anni, cosa ne è della lotta alla mafia?
“Credo che, dopo le stragi, lo Stato abbia fatto davvero molto, portando Totò Riina ed i suoi in un vicolo cieco. La mafia è meno forte e soprattutto senza piccioli. La Cosa nostra che abbiamo conosciuto tra gli anni Settanta e Novanta è in via d´estinzione. I Corleonesi, ma anche gli ‘scappati’, appena fanno un passo ormai sono fottuti. Certo, sono passaggi lenti, ma molte cose sono cambiate ed in meglio. Penso, ad esempio, al lavoro di Addiopizzo”.
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19 Luglio 2009, 00:56