17 Dicembre 2017, 17:18
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PALERMO – “Di questi soldi sinceramente non sapevo che cosa fare e il vizio che c’avevo io è che giocavo e mi passavo il tempo a giocare”. Il gioco era diventata un’ossessione per Vito Galatolo, boss dell’Acquasanta oggi pentito. Scommetteva e perdeva. Non era mica un problema, perché tanto i soldi non erano suoi. O meglio, appartenevano al tesoro di famiglia accumulato con la prepotenza mafiosa.
È uno “schiaffo alla povertà” più che una deposizione quella andata in scena al processo scaturito dal blitz “Apocalisse”. I 97 imputati avrebbero fatto parte del nuovo esercito di Cosa nostra azzerato dai carabinieri fra luglio 2014 e febbraio 2015. Furono colpiti i mandamenti di Tommaso Natale-San Lorenzo e Resuttana.
L’agenzia di riferimento di Galatolo si trovava proprio a Tommaso Natale: “… solo in quell’agenzia penso che più di mezzo milione di euro ho fatto una giocata, entrare e uscire, più di mezzo milione di euro, più o meno”.
“Mezzo milioni di euro?”, si chiede sorpreso uno dei giudici. “Qualcosa in più, qualcosa in meno… era denaro mio personale”. Il giudice insiste: “A questo punto la domanda viene spontanea, da dove derivava questo denaro?”. Galatolo non batte ciglio e risponde con una naturalezza scoraggiante: “Dalle attività illecite di Cosa Nostra, dalle società che noi avevamo con i Graziano… io sto parlando che quando si prendono dei soldi dentro Cosa Nostra, io c’ho la mia parte, sono soldi che vanno a me… Ma erano delle costruzioni che avevamo delle società con i Graziano, ripeto essendo una cosa che mio padre all’epoca negli anni ’80 insieme ad Antonino Madonia, il capo, il vero capo mandamento di Resuttana, hanno fatto delle società… tutto quello che costruivano nell’Acquasanta, nel territorio dell’Acquasanta, erano società assieme”.
Galatolo ricorda che un giorno suo zio Giuseppe, “il fratello di mio padre, gli hanno dato i domiciliari… ha preso 500 milioni, chiusi in una bombola di gas, sigillati e li abbiamo depositati a don Antonino per fare il fabbricato in via Montepellegrino”.
Il vizio del gioco Gaaltolo non l’ha perso neppure quando, obbligato dai giudici, andò a vivere lontano dalla Sicilia. Scelse Venezia: “Allora quando io ero giù a Palermo, andavo direttamente io a giocare o ci mandavo una volta a qualcuno… quando vincevo o perdevo facevo i conti a fine settimana, se vincevo mi davano loro i soldi a me, se perdevo davo a loro la differenza. Ma loro avevano fiducia in me perché sapevano io chi ero, comandavo io e sapevano chi ero… anche che mi trovavo a Venezia, telefonavo, gli dicevo io: Leandro giocami 5 mila, 15 mila, 20 mila euro per una settimana e poi se io perdevo chiedevo a mio cognato, chiedevo a qualcuno di portare soldi, che erano soldi nostri, miei”.
Adesso basta, quando è troppo è troppo. E così capita che anche gli imputati perdano la pazienza. Piero Magrì, che in primo grado è stato condannato a 8 anni di carcere, chiede di fare dichiarazioni spontanee. Respinge le accuse e si scaglia contro il collaboratore di giustizia: “Gli sento nominare tutti 500.000, 800.000 e mi vergogno, porco di un cane, che la gente non ha il pane, il bisogno di mangiare e lui parla di scommesse”.
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17 Dicembre 2017, 17:18