“Ecco chi non vuole | un’aula per Norman”

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30 Dicembre 2010, 00:00

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L’appuntamento è alla facoltà di Lettere. C’ero già stato dopo il suicidio. La Via Crucis in ascensore fino al settimo piano. Lo sguardo oltre la finestra per vedere ciò che Norman Zarcone aveva visto, un attimo prima della caduta. Il cielo in alto. Le  mattonelle in basso. Coriacee, lontanissime. Adesso, in un giorno tra Natale e Capodanno, il ritorno. La facoltà è sbarrata. Non si può salire al settimo piano. Ma era naturale incontrarsi qui, a un passo dal cielo di Norman. Nello spiazzo ci sono Marco Canzoneri e Alessandro Di Maio, laureati, amici. E’ accaduto un fenomeno strano. Nella sua lotta per l’intitolazione di un’aula al figlio, il destrorso Claudio Zarcone si è trovato accanto “i comunisti”, gli studenti dei Collettivi. Le barriere sono cadute, nel nome di un’identica battaglia. Marco e Alessandro sono le bocche spalancate di una dolente Guernica, ansiose di dire, raccontare, spiegare. Parlano con un’unica voce.

“I professori non vogliono la dedica – esordiscono -. Noi abbiamo già messo una targa personale. Abbiamo assistito a scene tremende. Una professoressa ha giurato che non metterà mai piede in un’aula con l’impronta del nostro Norman e ha aggiunto: ‘La pietà finisce’. In consiglio di facoltà ci sono state discussioni accesissime. Il muro dei docenti contrari è praticamente compatto. Solo il professore Sandro Musco ha avuto il coraggio di intervenire in senso opposto alla maggioranza. Tra lui e Lo Piparo sono volate frasi grosse”.

Franco Lo Piparo – secondo la vulgata studentesca – è il “barone universitario” di filosofia del linguaggio, il demiurgo delle carriere in ateneo in quella specializzazione. Si accenna a presunti dissidi tra lui e Norman Zarcone che la sua disciplina aveva scelto per sperimentarsi e progredire. Di fatto – insistono i ragazzi – il professore Lo Piparo sarebbe uno dei più forti contraddittori, fermamente appostato sulla linea del Piave dei nemici dell’intitolazione. Alessandro e Marco continuano: “C’è accanimento. I docenti non perdonano a papà Claudio le accuse lanciate a caldo sui trucchi e le baronie che hanno mortificato suo figlio, come centinaia di persone. Norman non era contento dell’università. Criticava la mancanza di competenza e di organizzazione. Era il migliore di noi, avrebbe meritato una sfolgorante carriera. Noi non siamo come lui, non ce lo sogniamo nemmeno. Era impossibile non volergli bene”. Alessandro cava dalla memoria un ricordo vicino alle lacrime: “La mattina del suicidio, abbiamo preso il caffè insieme. Non un gesto inconsueto, non un aggettivo fuori posto. Norman ha vuotato la tazzina. Mi ha guardato. Ha sussurrato: ‘Io vado’. Mi ha salutato così”.

Il professore Sandro Musco riceve nella sua “Officina di studi medievali”, in via del Parlamento. Secondo Marco e Alessandro ha lasciato piovere una reprimenda di fuoco in consiglio di facoltà. “Vi accanite contro la memoria di un povero studente”, avrebbe urlato a brutto muso in faccia ai colleghi. Interrogato, per una volta, il famoso professore inizialmente la prende alla lontana.
Il tono è roboante, pugnace: “Abbiamo scoperto l’acqua calda, caro signore! Il sistema è perverso ovunque. Dappertutto esiste un incrocio di interessi e raccomandazioni. Perché l’università dovrebbe risultare immune dal contagio? Ne convengo: scoprirla infetta è un’esperienza dolorosa”. Un paio di occhiate indagatrici e il professore scende nel particolare: “Certi miei colleghi di facoltà, ed è noto a chi mi riferisco,  si fingono Vergini delle rocce e sbagliano. A chi la raccontano? E’ un ruolo che non gli si addice. La casta esiste, nell’ateneo palermitano come in tutti gli atenei. Chi se la prende col papà di Norman dovrebbe prima avere la decenza di risolvere situazioni di casato familiare. I miei colleghi, sepolcri imbiancati, queste cose le sanno benissimo. Sappiamo perfettamente quanto contino gli interessi, i rapporti e le parentele”.

Sulla parete nello studiolo del professore Musco c’è una poesia di Giorgio Caproni tratta – parrebbe a prima vista -dalla raccolta “Il conte di Kevenhuller”. Si narra di una metaforica battuta di caccia. Scriveva il livornese Caproni: “Fermi, tanto non farete mai centro. La Bestia che cercate voi, voi ci siete dentro”. E lei, professore Musco, si sente una preda, per caso? La risposta è una perla di tradizioni popolari: “Io, veramente, minni futtu”.

La telefonata con Franco Lo Piparo non è semplice. All’inizio, è educatamente guardingo: “Sono stanco di rispondere alle domande dei giornalisti. Lei ha già una sua tesi preconcetta, ha deciso che il mostro sono io?”. Gli rispondo che, casomai, mi sarei risparmiato il fastidio della chiamata. Il professore ride: “Ci vediamo a Bagheria, a casa mia”. Lo studio è uno spazio domestico ricco, ovviamente, di libri, ritagli e fogli. Franco Lo Piparo sembra un mite ragazzo con i capelli bianchi. Ha lo sguardo sfuggente. Le mani sono attraversate da un saltuario tremito. Esordisce: “Sgombriamo subito il campo dagli equivoci. Io sono un barone. Lo sono, cioè, se con questo termine indichiamo una persona che goda in ambito universitario di un prestigio meritato, capace di influenzare le scelte degli altri. Gestisco un potere che mi sforzo di mettere al servizio della comunità. Tutto qui: l’accezione negativa della prassi e del fenomeno non mi riguarda e non mi interessa”.

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Altro punto fermo del professore: “Io non mi oppongo a ogni costo all’intitolazione dell’aula al povero Zarcone, non è affatto vero. Chiedo soltanto un atto di coerenza. Ci sono state accuse pesantissime, dunque si appuri se sono esatte e si agisca di conseguenza. Non mi nascondo. Se Norman è stato vittima di una vessazione, nella mia qualità di coordinatore, il reo sono io, è colpa mia. Non desidero solidarietà. Ma prima di arrivare a questo, si deve dimostrare senza ombra di dubbio la sostanza di quei capi di imputazione. Altrimenti, è aria fritta e, genericamente, ce la prendiamo con il sistema. Bè, il sistema in astratto non esiste, sa? Sono gli uomini che ne fanno parte e lo orientano”. Altro sassolino. “Rigamonti, il suo tutor, ha affermato in un’intervista che Norman stava nella squadra sbagliata? Gliene chiederò conto pubblicamente”.

Il professore continua: “Svolgo il mio ruolo con scrupolo. Ho delle riunioni periodiche con i miei collaboratori. Coinvolgo tutti. Sono vicino agli studenti con questioni irrisolte. La mia carriera è lì, a disposizione. Non sono stato a letto con nessuno per ottenere il mio posto. Esigo e dò rispetto. Avverto sempre i ragazzi, li metto in guardia sulle difficoltà del percorso accademico. Non prometto nulla che non possa mantenere. Ho saputo di Norman in Spagna, durante un convegno. Era un giovane dolcissimo e taciturno, magari covava altri problemi. Il suo suicidio mi ha messo emotivamente in crisi. Sono scosso, non lo nego. La mia posizione è netta. Ecco un passo fondamentale di una mia lettera al Senato Accademico. C’è il senso del mio discorso”.

Si legge:  “Nella qualità di coordinatore del dottorato che Norman Zarcone frequentava, come dottorando senza borsa, consentitemi di comunicarvi le mie valutazioni. Dedicare a Norman Zarcone e a tutti i giovani che in una fase difficile della propria esistenza non hanno retto all’incertezza e alla difficoltà del futuro è pedagogicamente e politicamente sbagliato (…). Il padre di Norman Zarcone ha riempito di fango l’Università di Palermo e ha fatto del suicidio del figlio il simbolo politico delle malefatte delle cosiddette baronie accademiche. Potrebbe avere ragione. Non ho intenzione di escluderlo a priori. Ma perché intitolare un’aula al figlio prima di controllare la verità o falsità delle accuse mosse dal padre (…). Constato che Rettore e Senato Accademico preferiscono la via più facile e autolesionistica: usare una targa ‘Norman Zarcone’ affissa in un’aula dell’ateneo come una ipocrita foglia di fico”. Firmato: “Con rispetto Franco Lo Piparo, coordinatore del Dottorato “Filosofia del linguaggio e delle mente”.

Frase di congedo: “Le mando altro materiale via mail”.  Le mani del professore hanno un ultimo guizzo. Il suicidio di Norman è una lama nel cuore. Siamo tutti al buio. Brancoliamo nella pancia della Bestia.

(2-continua)

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30 Dicembre 2010, 00:00

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