Ecco come la cultura | riuscirà a salvare Palermo

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29 Aprile 2012, 07:57

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Al Cep, nell’estrema periferia di Palermo, c’era un barbone che somigliava a mio padre. Aveva un solo vestito, reso orrendo dall’uso e la barba lunga. Ma la faccia – riferiscono – era una fotocopia, il calco di un altro uomo, mai visto. Soprattutto con le palpebre socchiuse.  Mio padre era professore. Insegnava italiano e latino. Così quel barbone si ritrovò addosso un appellativo inconsueto. Lo chiamavano “u’ Prufissuri”. Fu Vincenza, la signora che veniva a fare le pulizie in casa mia, a dargli quel soprannome “u’ Prufissuri”, per assonanza fisiognomica. A poco a poco, la qualifica honoris causa si diffuse porta per porta, senza che si sapesse bene come.

Per la gente del Cep, quel barbone era semplicemente “u’ Prufissuri”. E si guadagnò un rispetto che mai aveva ricevuto in vita sua. Quando camminava, anziani, grandi, donne e bambini mormoravano: “Sta passando iddu, u’ Prufissuri”. Qualcuno abbozzava un inchino. Il panettiere aveva sempre una rosetta in più. Gli ignari dell’origine di tutto favoleggiarono sul nomignolo. Si stabilì, per deduzione generale, che il senzacasa fosse davvero un professore caduto in disgrazia, un antico amico di Cicerone in picchiata da una cattedra fino a un’esistenza di macerie. E la sua fama crebbe. Ovunque andasse c’erano accoglienza e sorrisi. Si trattava di un sapiente. La camicia consunta odorava di vomito e urina, però nessuno ci badava più.

La camicia di quel barbone è Palermo com’è. La sua resurrezione è la cultura.
La cultura è una rassomiglianza misteriosa. E’ qualcosa che sta fuori di te, che non è te, che non hai considerato, che un minuto prima non scorgevi. Eppure, quando sussurra un nome – che sia una parola, un suono o un colore – scopri il crisma del ricongiungimento familiare: raggio sincero di sole o riflesso ingrandito di luce, non importa. Quando quel nome è pronunciato, quando affiora a pelo di memoria, già ti appartiene, perché ti apparteneva. Sfolgora. Riempie di senso il vuoto che c’era. E te ne sei innamorato. Non sopporti più il lutto della distruzione della cosa o della persona che lo regge.

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La cultura è un’estranea che sa a perfezione la latitudine della corda più intima. E può pizzicarla. E’ il talento di posare con grazia un aggettivo per trasformare una discarica in una siepe di gelsomini. E’ l’ingegneria della creazione di un mondo talmente lieve, da essere pesantissimo. Sul cuore.

Non bestemmiate. Non dite che la bellezza, sostanza della vera cultura, non si mangia, che non serve qui, perché qui occorre il lavoro. Non limitiamoci al conteggio del registratore di cassa. Palermo è urina e vomito. Non cambierà subito, se mai cambierà. Nel frattempo dovranno cambiare i nostri occhi e le nostre orecchie. Proviamo a immaginare che ci sia un modo per amare Palermo. Troviamo un nome che corrisponda al nostro amore. Il resto verrà da sé. Palermo ha bisogno di cultura. Ne ha bisogno, più del pane.
Che cos’è la cultura? E’ andare al Cep, in un pomeriggio di assenza. Guardare un barbone. E sentire che un abbraccio è tornato sulla terra, da una galassia lontana.

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29 Aprile 2012, 07:57

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