05 Marzo 2018, 17:36
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Nell’amarezza elettorale del Pd, c’è un retrogusto siciliano secco e spinoso. Un sapore cumulativo di disfatta che, quaggiù, offre più di una asprezza su cui ragionare. Ovunque volano i grillini.
Sparute sono le sacche di resistenza del centrodestra. Il centrosinistra, invece, è assente, anzi, derelitto. Guarda il confronto di altre forze da spettatore non partecipante, qui peggio che altrove. Le urne nell’Isola non sono roba sua. Ed è il tonfo di un metodo che chiama in causa Matteo Renzi e i suoi luogotenenti, primo fra tutti Davide Faraone, il vero plenipotenziario del già rottamatore, adesso rottamato.
Una sconfitta inequivocabile, nata dalla progressiva disaffezione. Che cosa è stato il renzismo a queste latitudini se non una somma di errori, il canovaccio di una speranza tradita, una tela di nonsensi? L’equivoco del governo Crocetta è un caso di scuola primario: la vicenda di un governatore messo all’indice con l’affissione dei comunicati stampa, prima della spartizione di poltrone e strapuntini. Sostenuto e avversato. Come poteva cavarsela la sigla più di tutte associata al crocettismo, sia pure in un rapporto così contraddittorio da risultare patologico?
Matteo Renzi è stato percepito come un corpo estraneo, il monarca del giglio magico calato per raccontare una felicità che qui non è mai attecchita, soprattutto per colpa sua; il colonizzatore delle liste che manda Maria Elena Boschi col paracadute; il titolare di una bottega rissosa, persa in giochini e ripicche, incapace di una visione d’insieme, di un progetto, di battaglie che non fossero la lotta al coltello per il potere.
Dalla disaffezione si è passati all’avversione elettorale, quando gli ultimi siciliani legati alla ditta democratica hanno osservato, attoniti, l’ingresso di figure – persone rispettabilissime, per carità – che, certo, non potevano definirsi buoni compagni di viaggio. Acquisti che hanno disperso ciò che restava dell’identità di un popolo, senza guadagnarne una nuova.
E’ la storia – e vale per tutte – del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che, con uno dei suoi celebri spostamenti laterali, ha convolato a nozze piddine, apparse ai più alla stregua di un matrimonio d’interesse. Quel sindaco Orlando che, qualche tempo fa, il sottosegretario Faraone definiva ‘ancorato alla preistoria’. Lo stesso primo cittadino – già compartecipe del ‘sacrificio’ del rettore Micari alle regionali – immortalato in una simbolica foto-ricordo: lui a sinistra, Faraone a destra e l’ex forzista Dore Misuraca al centro. Tutti e tre con le mani unite per raccomandarsi alla somma algebrica di esperienze talmente diverse da risultare non mescolabili. Non poteva funzionare. Infatti, non ha funzionato.
Il Pd siciliano non ha governato i problemi della sua terra, li ha scansati, fidando che lo stellone e qualche improvvisato alleato facessero il miracolo di una sconfitta meno dolorosa di quella che, adesso, chiama in causa un’intera classe dirigente. Perché bisognerà affidarsi a persone nuove, se non si vuole distruggere il poco che rimane. E’ andata malissimo, come era naturale che andasse. L’avevano capito tutti tranne quelli che, forse, avrebbero dovuto capirlo in tempo utile. Così, nell’indifferenza e nella perseveranza, nonostante i molti segnali e avvisi, è stato compiuto un delitto (politico) perfetto.
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05 Marzo 2018, 17:36