Cronaca

“Era la luce dei suoi occhi”: così Riina definiva Messina Denaro

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26 Giugno 2020, 12:16

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“Nel pieno del processo sulla trattativa, Totò Riina è inferocito. Si lamenta di Matteo Messina Denaro, che definisce un ‘ragazzino che si è messo a prendere soldi, si interessa di se stesso e non delle questioni. ‘Se ci fosse suo padre, che era un bravo cristiano che mi dava a suo figlio per farne quello che dovevo fare…'”.

A ricostruire il rapporto tra il capo dei capi di Cosa nostra e il superlatitante è il pm Gabriele Paci nella requisitoria per il processo, a Caltanissetta, a Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e via D’Amelio. “Brusca fornisce una indicazione fondamentale – ha continuato – Siamo alla fine del ’92. Riina gli fa una confidenza e gli dice ‘Guarda che se mi succede qualcosa, i picciotti Giuseppe Graviano e Matteo sanno tutto'”. Paci ha sottolineato più volte che Riina parlava di Messina Denaro come “la luce dei suoi occhi” e ha concluso: “Il padre lo aveva messo nelle sue mani. ‘E io l’ho fatto buono’, diceva Riina, ricordando questo mafioso che gli era cresciuto sulle ginocchia”.

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“Il maxi processo è l’emblema della reazione dello Stato alla mafia. Si infrange il muro dell’omertà e si condannano mafiosi importanti. Totò Riina aveva sempre garantito il buon esito dei processi – ha aggiunto Paci – lui aveva i suoi canali per arrivare agli aggiustamenti di questi processi e reagisce in maniera feroce quando capisce che la situazione gli è sfuggita di mano, perché gli amici hanno girato le spalle e non ci sono margini, gli dicono che non possono fare nulla per intervenire. C’è anche una partita interna che deve giocare Riina che avendoci messo la faccia non può accettare la sconfitta. La sua leadership – ha ricostruito il Pm – rischiava di essere messa in discussione dopo tanti anni. Si trova improvvisamente in brache di tela e ben prima della sentenza della Cassazione emessa nel gennaio del ’92 è consapevole che non c’è nulla da fare. Riina sta impazzendo e in Cosa Nostra si diffonde un sentimento assai incline al pessimismo. Siamo intorno all’ottobre del 91 e si è abbandonata la speranza di arrivare all’annullamento delle condanne. Il mancato aggiustamento del maxi processo – ha evidenziato il Pm Paci – diventa il momento in cui comincia la strategia per togliere di mezzo amici e nemici. Il fallimento dei tentativi di aggiustamento vengono imputati innanzitutto a Giovanni Falcone”. (ANSA)

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26 Giugno 2020, 12:16

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