13 Febbraio 2017, 10:24
5 min di lettura
CATANIA – Esiste un limbo che non fa scalpore. Una bolla d’aria spesso difficile da comunicare e persino da riconoscere. E non solo da parte di chi quella bolla la guarda dall’esterno, attraverso i vetri di una normalità apparente, ma anche da parte di chi in quella bolla vive. Sarà perché non ha crepe esterne, sarà perché non porta con sé segni evidenti o sarà anche perché ti lascia sopravvivere. C’è una violenza che non ha lividi, che non si spinge oltre agli schiaffi o ai calci, come se anche solo quelli fossero tollerabili, che non aggiunge altri nomi di donne nel novero di quelle che non ci sono più. Eppure è una violenza che uccide, in modo diverso ma uccide. Subdola ti scava dentro giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Ti svuota a tal punto da farti sentire la larva di te stessa, lasciandoti sopravvivere in un limbo dove la violenza non è tanto, e non è solo, fisica ma è soprattutto psicologica. E con quella a poco a poco muori dentro.
“Mi sentivo come in una botte chiusa, mi sentivo in claustrofobia, mi sentivo soffocata in una cosa senza via di scampo”. Il racconto all’altro capo del telefono raccoglie l’eco di tante storie. Una voce a cui poter dare qualsiasi nome. E allora “Valeria” racconta la propria di vita. Una vita vissuta anni in una bolla che però lei è riuscita a fare scoppiare. E mentre la ascolti parlare di sé, la fermezza del tono quando rievoca il suo passato trasmette tutta la forza di una donna che si è finalmente riappropriata della sua identità. Ma era poco più di una ragazza piena di sogni e aspettative quando ha trovato l’amore. O almeno quello che lei pensava fosse amore. Del resto era l’età perfetta per incontrare il principe azzurro, il ragazzo di buona famiglia brillante che riesce a conquistarti con le sue attenzioni e le sue parole ammaliatrici. E Valeria il suo principe azzurro lo aveva trovato. Poco importava se gli amici non esistevano più, perché al centro del suo mondo doveva esserci solo lui. Poco importava se doveva rinunciare agli studi e al lavoro, perché il futuro era già programmato da lui. Poco importava se durante le liti qualche schiaffo volava, perché la sua ingenuità le faceva anche pensare che fosse normale durante un momento di rabbia. Poco importava tutto questo, perché “ci credi”, perché “alla fine erano piccole frustrazioni che accettavo, perché mi sentivo amata”.
“Una persona che ti ama non può colpirti”. “Ora so che non si deve arrivare a questo, perché un solo schiaffo oggi vuol dire che domani saranno più frequenti e raddoppiati”. Ora. La voce di Valeria si innalza a sottolineare una presa di coscienza che è stata una conquista sofferta, che ha dovuto attraversare il fidanzamento prima e il matrimonio e la genitorialità dopo, nella vana e illusoria speranza che con il passare del tempo le cose sarebbero migliorate. “Mi teneva come un giocattolo, come una cosa a sua disposizione e non come una persona da rispettare nella sua crescita”. Un logorio incessante fatto anche di violenze verbali irripetibili pronunciate di fronte ai figli, un continuo svilimento della sua capacità di azione e del suo ruolo di madre, un possesso assoluto e opprimente che mirava ad annientare la sua autostima e la sua autonomia, a sgretolare il tessuto sociale e affettivo attorno a lei per isolarla, per creare un legame di dipendenza ed evitare possibili confronti con il mondo esterno. Un mondo, però, spesso incapace di cogliere e di comprendere una violenza priva di segni manifesti e che si maschera dietro il viso perbene di un uomo simpatico. E Valeria ricorda quelle volte in cui aveva provato invano a comunicare il grave disagio in cui viveva. Situazioni che non sono un gridare “a lupo a lupo”, tiene a precisare, perché “la violenza è dilagante ed è un pericolo reale”.
“Ho smesso di giustificarlo quando mi sono resa conto che per lui non contavo”. Il tono di Valeria non vacilla nemmeno quando ricorda quella solitudine assoluta in cui ormai era abituata a vivere. “Un senso di solitudine profondo, me lo sentivo nell’anima e ci ho messo anni per non doverlo sentire più. Un senso di solitudine come una malattia che non riuscivo a scrollarmi di dosso”. Determinante nella sua presa di coscienza è stato il confronto con le altre madri. “Prima nemmeno io sapevo cosa fosse giusto o sbagliato in una coppia”. Un confronto fondamentale, quindi, per comprendere che un rapporto sano non contempla né giustifica quella violenza verbale, fisica e psicologica a cui lei era invece sottoposta. E allora la forza per dire basta “si trova dentro” e la si trova anche e soprattutto per i figli, “per dare equilibrio a loro”, perché la violenza “non è estrema solo quando si arriva alla violenza sulla donna, ma è estrema anche quando dei bambini devono subire un atteggiamento di questo tipo” tra i genitori.
Valeria allora ha detto basta. E non è stato semplice, ma con l’aiuto dell’Associazione del Telefono Rosa ce l’ha fatta e adesso è “una donna in piena crescita”. Gli occhi gonfi di lacrime hanno lasciato il posto alla fermezza, una fermezza che ha dovuto imparare e che ha dovuto trovare dentro di sé. È riuscita a trarre forza da una rabbia altrimenti implosiva e da un’esperienza che ha provato a spezzarla. La sua ora è la voce di chi ce l’ha fatta, perché vengono definite così le donne che sono riuscite a liberarsi dai lacci di uomini violenti e prevaricatori. Una voce che è diventata testimonianza per dire a chi ancora quella bolla non è riuscita a farla scoppiare di “affrontare le proprie paure come la propria separazione, di affrontarle perché non affrontarle non vuole dire risolverle, ma significa solo peggiorarle, perché i problemi da soli non se ne vanno, ma aumentano”.
Pubblicato il
13 Febbraio 2017, 10:24