Falcone: i riti e la memoria | Quel che resta del 23 maggio

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25 Maggio 2015, 20:02

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Giovanni Falcone rinasce ogni 23 maggio. Resta con noi – con sua moglie con la sua scorta – per un giorno intero. Alle 17,59, un minuto dopo la strage di Capaci, prende congedo, si dissolve con la sua toga soffusa di coraggio. E muore ancora una volta. Se Falcone non fosse rinato e ri-morto per ventitré anniversari consecutivi, se il suo esempio fosse diventato sentiero percorso a poco a poco, non finzione nel cuore dell’ipocrisia, questa terra sarebbe già migliore.

Cosa abbiamo detto o fatto per evitare il ripetersi di un sacrificio rituale? Certo, i bambini si sono recati, con tutta la loro innocenza presso l’albero che ha lo stesso cognome del magistrato ucciso, e hanno edificato il loro esserci intorno a un’emozione in più. Certo, i corifei del complottismo avranno lucidato le agende rosse, abbeverandosi alla suggestione della Trattativa perenne e dunque mai terminata, sicché pare quasi di scorgere dei cartelli ammonitori, qua e là: “Trattativa in corso, non indagare”.

Certo, gli amici di ‘Giovanni e Paolo’ hanno sciorinato il consueto pezzo di repertorio composto di confidenze, di incontri, di caffè, sempre con l’inganno della discrezione, sempre con il finto sguardo dimesso di chi non vorrebbe parlare, né dire, ma poi si sottomette immancabilmente all’imperio dell’urgenza civica del ricordo. Certo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha tenuto un discorso nell’aula bunker di Palermo: “Riusciremo a battere la mafia”, ha annunciato solennemente. Ecco la speranza perpetuabile e mai esaudibile: la mafia battibile, però non ancora battuta. Altrimenti quale sarà il proclama di domani?

E poi? Cosa resta, poi, ai margini di una coreografia talmente consunta da svelare la sua nudità; lassù, sul palco, dove perfino i più acerrimi critici del giudice, e perfino coloro che discettavano di processi nei cassetti, segreti e procure, hanno avuto diritto al posto d’onore? E cosa abbiamo aggiunto al trito canovaccio noi giornalisti che ogni anno componiamo acquerelli e didascalie, lì dove la memoria confina col cinismo dei mestieranti?

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Nulla ci pare che rimanga davvero, nulla ci sembra che sia nato di diverso, di veramente essenziale, di salvifico, dalla polvere di una commozione annunciata. Solo fotocopie, parole al vento che abbiamo già ascoltato nelle ventidue puntate precedenti, che abbiamo già conservato e messo da parte. Torneranno buone anche l’anno prossimo.

 

 

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25 Maggio 2015, 20:02

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