05 Gennaio 2014, 00:50
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CATANIA – Quasi un quarto di secolo, venti lunghissimi anni, per avere una sentenza, un pezzo di carta, che accertasse chi e cosa ci fosse dietro l’omicidio del giornalista Pippo Fava. Da quella sera del gennaio 1984 in via dello Stadio a Catania alla pronuncia definitiva, nel 2003, della Corte di Cassazione c’è tutto ciò che ha sempre contraddistinto i delitti più eccellenti e i misteri più fitti. Anni caratterizzati da depistaggi, voci create appositamente per screditare l’uomo ancor prima del professionista. Un comune filo conduttore che ha messo fianco a fianco magistrati, medici, giornalisti e forze dell’ordine uniti dall’obiettivo di occultare, sviare, ma soprattutto proteggere quello che Fava stesso definiva negli anni ‘80 il “terzo livello”. La mafia già allora era fatta di “uccisori, pensatori e politici” nonostante questo c’è chi preferiva chiamarla, con una grande voglia di sminuirla, semplicemente “criminalità”. Lo stesso livello di cui parlava Fava in questa vicenda giudiziaria, se non marginalmente, ne è rimasto sempre accuratamente fuori. I cavalieri dell’apocalisse, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro erano considerati all’epoca l’orgoglio di Catania, la città progrediva sotto le colate del loro cemento.
Di “Pippo” Fava hanno scritto e detto di tutto. Dai debiti alle donne, Tony Zermo, editorialista del quotidiano “La Sicilia” il giorno dopo l’omicidio lo ha addirittura dipinto come un’artista che non usava nomi e cognomi e non faceva denunce precise. Quando cinque proiettili di una pistola calibro 7,65 lo colpirono alla testa la prima ipotesi che venne esclusa fu proprio quella della pista mafiosa catanese che portava a Nitto Santapaola, capo indiscusso e alleato dei “villani” di Corleone. Ad essere messa in archivio nei primi anni dai canali investigativi fu anche la rivista di cui Fava era direttore: “I Siciliani”. A Catania d’altronde come amava ripetere Nino Drago al Corriere della Sera dopo l’omicidio, “Non c’era mai stata collusione tra mafia e politica”. Per “capirci qualcosa” c’è stato bisogno di due collaboratori di giustizia, tanto diversi tra loro ma nello stesso tempo così vicini nel conoscere i segreti dell’omicidio Fava. Da un lato il killer più sanguinario e perverso della mafia catanese, Maurizio Avola e dall’altro una donna, Italia Amato, amante di uno dei fedelissimi di Santapaola, Francesco Mangion.
Avola ha raccontato le fasi dell’omicidio: “Il primo colpo si sente più forte perché manda in frantumi il vetro… poi gli altri sono molto silenziosi che neanche si capiva che erano colpi di pistola. Una frazione di secondi… Ercolano torna indietro e sale in macchina… Abbiamo tagliato per viale Rapisardi…Io mi sono disfatto degli altri proiettili che avevo ancora in tasca, quelli che non avevamo usato. Ho pensato: se capita qualcosa, un posto di blocco, con questi proiettili addosso mi fottono…” L’ex killer della mafia catanese ha però più volte sottolineato come l’uccisione di Fava fosse legata al suo “parlare male dei Cavalieri del lavoro” coloro che “stavano bene con la famiglia Santapaola”. Una testimonianza identica a quella della donna diventata collaboratrice: “Nitto si adirava particolarmente quando leggeva gli articoli di Fava, anzi cercava gli articoli per verificare se parlava male di lui della mafia e dei Cavalieri”. Tra i lettori assidui del giornale di Fava c’era proprio Santapaola in persona, che periodicamente sfogliava “I Siciliani”. Da capire c’era fin dove si spingeva il giornalista nel raccontare l’intreccio tra mafia politica e imprenditoria. Proprio il lavoro svolto con la sua rivista verrà evidenziato dalla sentenza come “movente dell’assassinio”.
Per l’omicidio Fava sono stati condannati in maniera definitiva Benedetto Santapaola e il nipote Aldo Ercolano oltre a Maurizio Avola che ha patteggiato una condanna a sette anni. In primo grado le condanne all’ergastolo erano arrivate anche per Marcello D’Agata, fraterno amico di Avola, e Francesco Giammusso, salvo poi essere definitivamente assolti in appello e in Cassazione insieme a Enzo Santapaola, nipote di Nitto. L’unico Cavaliere a essere stato iscritto nel registro degli indagati fu invece Gaetano Graci che morì successivamente per cause naturali. Morirono ancor prima dell’istruttoria Costanzo e Finocchiaro mentre il solo Rendo venne sentito a processo semplicemente come testimone.
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05 Gennaio 2014, 00:50